Innovazione
La scala dell’AI: dati, sostenibilità, potenza computazionale e formazione. Parla Barbara Caputo
Di Virginia Caimmi
Professoressa ordinaria presso il Dipartimento di Automatica e Informatica del Politecnico di Torino, Barbara Caputo dirige l’AI-H (Artificial Intelligence Hub). Tra i suoi numerosi incarichi, è anche Presidente della start-up Focoos AI, che sviluppa soluzioni per rendere l’uso dell’intelligenza artificiale più accessibile alle aziende, abbattendo i costi energetici e computazionali grazie a tecnologie di ottimizzazione delle reti neurali.
Professoressa, come vede l’evoluzione dell’intelligenza artificiale nei prossimi anni?
«Ritengo che nei prossimi anni una questione fondamentale sarà quella della scala: dei dati, delle energie, della sostenibilità ambientale, della potenza computazionale e delle persone da formare rispetto alla conoscenza e all’utilizzo dell’AI. Quando parliamo di scala dei dati intendo dire che viviamo in un momento storico in cui i modelli sono sempre più grandi, necessitano di una quantità sempre maggiore di dati. Finora la fonte principale di dati è stata la rete. Però ci sono moltissime altre classi, categorie di dati di grandissimo interesse che potrebbero permettere di aprire le porte a una nuova intelligenza artificiale, a nuove applicazioni di questa tecnologia e a nuovi algoritmi. Questi dati sono estremamente distribuiti, non hanno un luogo naturale di aggregazione, e non è ancora stato trovato il giusto compromesso tra offrire un valore a chi li possiede e controlla per condividerli, e dare vantaggi chiari a chi si assume il costo e la responsabilità di metterli insieme e renderli fruibili. Sul fronte energetico, è maturata la consapevolezza che i data center siano energivori. Il nucleare di nuova generazione sembra possa essere una soluzione; resta il fatto che in ogni caso i data centers hanno bisogno di grandi quantità di acqua per il raffreddamento; su questo aspetto non sembra esserci ancora molta sensibilità. Un altro punto, molto importante, è la scala della formazione. Da una parte è sempre più complicato formare tecnici nel campo dell’AI, con una preparazione che permetta veramente di utilizzare l’AI su data center così grandi, perché al crescere della dimensione di questi supercomputers inevitabilmente le università che hanno accesso a tali infrastrutture per la didattica sono sempre meno. Per contro, l’utilizzo dell’AI è qualcosa che ormai riguarda qualsiasi cittadino perché ognuno di noi porta in tasca un computer che noi continuiamo a chiamare telefonino. E l’AI è dappertutto. Quindi il bisogno di educare alla conoscenza e all’utilizzo dell’AI nel nostro quotidiano sta esplodendo e coinvolge tutta la popolazione. Io credo che questi siano i tre grandi temi che dovranno essere affrontati nei prossimi anni».
Quali sono i trend tecnologici che segneranno il futuro?
«Parlare di futuro a lungo termine è impegnativo per l’AI, vista la velocità tumultuosa a cui si evolve. Rimanendo focalizzati sui prossimi 18-36 mesi, credo che l’AI generativa non abbia ancora portato tutti i frutti che potrebbe. In particolare, la grande sfida aperta è quella dell’embodiment, il rendere intelligenti sistemi autonomi che agiscono e interagiscono con l’ambiente grazie ad una loro fisicità – come robot domestici, ad esempio. Questo richiede capacità di pianificazione e ragionamento astratto molto complesse, su dati multi-modali molto ricchi e diversi da quelli che si possono acquisire sul web, che al momento l’AI non ha legato a questo tema (ma rilevante anche per l’AI Generativa dominante) è la sfida legata all’imparare da pochi dati non annotati. Oggi l’apprendimento dietro ai prodotti di AI che usiamo è in maniera dominante di tipo supervisionato su enormi quantità di dati, ma moltissimi domini applicativi richiedono la capacità di apprendere da pochi dati non annotati. Ultimo, vale la pena riflettere non solo su quello che ci si aspetta che verrà ma anche su quello che probabilmente andrà ad esaurirsi: credo che la promessa di fare addestramento di modelli ad alta capacità da dati sintetici stia mostrando tutti i suoi limiti. Ultimo ma non ultimo, la sostenibilità energetica ed ambientale di questi modelli. Dal punto di vista della performance, scalare la dimensione dei modelli e dei dati di training funziona. Come lo stiamo facendo ora, con circa il 50% dei parametri usati in addestramenti ridondanti, è davvero l’unico modo possibile?».
Come possiamo rendere l’IA accessibile anche per le piccole e medie imprese?
«Come portare l’AI alle piccole e medie e – soprattutto – alle micro imprese è una grandissima sfida che riguarda sicuramente l’Italia ma anche molti altri Paesi. Il tasso di adozione dell’intelligenza artificiale da parte delle piccole e piccolissime imprese è molto basso (in Italia e in Europa) essenzialmente per due criticità. La prima è la narrativa che riguarda l’intelligenza artificiale, l’AI generativa in particolare: sembra che tutto sia possibile e sia già pronto, che basti allungare la mano e prenderlo, scaricare un’app sul telefono, installarla su un computer e via, tutto funzionerà. In realtà non è così. Esistono dei prelavorati che permettono di fare tante cose. Tuttavia per arrivare a ciò che ha valore per un’impresa c’è bisogno di fare un ultimo miglio, indipendentemente dall’ambito di attività. Questo ultimo passo va fatto da parte di aziende esperte, ed ha un costo che molte piccole imprese non si possono permettere. La seconda criticità è che le piccole aziende hanno ben chiara l’importanza che mettere innovazione nei propri prodotti possa avere per la propria crescita. Ma proprio perché piccole, i loro margini di manovra in termini di budget, di allocazione di risorse e di persone, sono estremamente limitati. Ci troviamo quindi di fronte ad un disallineamento tra ciò che si potrebbe fare, ciò di cui ci sarebbe bisogno, e ciò che si può fare rispetto alle risorse disponibili. Io credo che quando si invoca un nuovo patto tra pubblico e privato, considerazioni di questo tipo debbano assolutamente essere fatte perché riuscire a sanare questo disallineamento potrebbe avere un effetto veramente importante sulle piccole e medie imprese, in particolare proprio quelle italiane».
Cosa pensa delle implicazioni etiche legate allo sviluppo dell’IA?
«Credo che le riflessioni etiche siano assolutamente necessarie e fondamentali. Pensando al sistema Paese spero però che le poche, giuste, doverose e necessarie riflessioni etiche non distolgano l’attenzione anche dal grandissimo bisogno di agire. È veramente fondamentale che in Italia l’adozione di intelligenza artificiale, la conoscenza di questa materia, il fare impresa sull’intelligenza artificiale e continuare a fare – com’è stato fatto fino adesso molto e bene – in campo di ricerca e formazione da parte dell’università sull’intelligenza artificiale, continui. Quanto più conosceremo, quanto più avremo nelle dita questa tecnologia, quanto più avremo vera consapevolezza di che cos’è, di cosa può essere, di quelle che sono le opportunità e le potenzialità e di quelli che sono i rischi. Viviamola, usiamola, perché questo andrà ad arricchire anche ogni tipo di riflessione etica».
A suo avviso, quali competenze chiave dovrebbero sviluppare studenti e professionisti per essere pronti ad affrontare le sfide del settore dell’IA?
«Confesso di avere una visione molto di parte, probabilmente anche limitata su questo tema, perché essendo una persona tecnica, una persona che fa, che inventa nuova AI, la mia visione è appunto legata alla formazione di tipo tecnico. Però essendo sempre più ampio il bacino di chi può utilizzare applicazioni di AI ed essendo la quantità di applicazioni di AI ormai crescente, credo ci sia sempre più bisogno di persone che studino cosa significa imparare l’AI, che si pongano questa domanda. Occorre spiegare l’AI a ragazzi delle scuole medie, a ragazze del liceo, a bambini delle elementari, introdurre l’Intelligenza Artificiale a docenti delle elementari, a medici che si trovano in ospedale, a giudici e avvocati, … l’elenco è lunghissimo. Cosa significa questo? La verità è che non lo sappiamo e c’è bisogno di nuova ricerca, di nuovo sapere per orientarsi. È estremamente sfidante e affascinante perché si tratta di conoscere e capire come raccontare, come spiegare, come far entrare nella vita e nell’esperienza vissuta professionale e personale di tutta la popolazione qualche cosa che cambia, che si muove davanti a noi, mentre noi parliamo. È una grandissima sfida».
L’istruzione accademica è pronta per accogliere le richieste del mercato dell’innovazione?
«Ritengo che l’accademia si trovi davanti, come molte altre istituzioni, a dei cambiamenti veramente epocali. Siamo veramente in una cuspide della storia scientifica e quindi anche della storia accademica. Due grandi riconoscimenti, due premi Nobel che abbiamo visto il 9 e il 10 ottobre, in due discipline diverse, avevano come filo conduttore l’importanza grandissima dell’intelligenza artificiale. Il trasferimento di conoscenza si sta spostando dall’esperienza accademica all’esperienza lavorativa. Una cinquantina di anni fa, circa il 70% di ciò che una persona imparava durante la propria vita veniva insegnato durante il percorso scolastico o accademico e il rimanente 30% veniva spiegato, acquisito durante la propria esperienza lavorativa. Probabilmente adesso siamo a un 50% e 50%. È assolutamente ragionevole immaginare che questo equilibrio si sposterà a favore dell’esperienza al di fuori del momento di formazione del percorso tradizionale scolastico. Questo non vuol dire che si imparerà solo sul posto di lavoro. Significa che la formazione diventerà un processo permanente e continuo. E quindi è veramente necessario immaginare e pensare un nuovo modo di studiare. Gli spazi della scuola, dell’università, dovranno essere ripensati per essere continuamente aperti non solamente ai propri studenti di oggi ma anche agli studenti di ieri e dall’altro ieri».
Il settore tecnologico è ancora dominato dagli uomini. Quali strategie ritiene utili per incentivare la partecipazione delle donne nel campo dell’intelligenza artificiale e dell’informatica? Quali iniziative pensa che possano essere messe in atto per promuovere la diversità e l’inclusione nel settore tecnologico?
«Non sono sicura che l’intelligenza artificiale e l’informatica abbiano delle specifiche che rendano questo campo così diverso da tutti i campi in cui si registra una più bassa presenza femminile. I dati ci dicono che nulla sembra indicare che le ragazze abbiano in maniera intrinseca delle capacità maggiori o minori per alcune materie. Quindi in una popolazione che è circa il 50% maschile, 50% femminile, finché si sta sui banchi, fino a quando si fa per così dire ‘palestra’ dell’utilizzo della conoscenza, sembrerebbe che i talenti si distribuiscano in maniera uniforme. Poi succede qualcosa. A un certo punto sembra che questi talenti si indirizzino per alcune strade piuttosto che altre, e poi – ormai numerosi dati sono assolutamente consistenti sul punto – quando le giovani donne decidono di intraprendere un percorso di genitorialità, troviamo una discontinuità. C’è un rallentamento fortissimo nelle carriere. Io credo che il fatto di perdere talenti in uno specifico campo non sia solamente qualcosa da guardare a livello personale ma vada osservato come comunità, come Paese. Ci va bene che del 50% di giovani promesse che si affacciano al mondo del lavoro in Italia, che hanno talento per l’intelligenza artificiale e per l’informatica, la metà, se non due terzi, non metta a frutto questo talento per svariati motivi? Se, come comunità, pensiamo che questo non vada bene, non ci porti valore, dobbiamo lavorare per invertire questo trend. Se alziamo lo sguardo ad altri paesi, le quote hanno funzionato e funzionano benissimo – penso in particolare al mondo scandinavo, e alla mia esperienza di lavoro in Svezia. Sono perfettamente consapevole del fatto che le quote siano controverse, forse non sono lo strumento migliore possibile. È un fatto però che laddove sono state usate hanno funzionato, e altri strumenti di uguale efficacia io non ne conosco».