In Parlamento

FOCUS INNOVAZIONE TECNOLOGICA #4. Zanella: «Serve legge annuale su transizione digitale e il ministero dell’Innovazione a Milano»

23
Settembre 2022
Di Andrea Sivo

Continua il ciclo di interviste di The Watcher Post sull’approfondimento relativo all’innovazione tecnologica, una delle colonne portanti del Pnrr ma messo in una nicchia durante la campagna elettorale. Dopo aver ascoltato l’analisi di Luca Carabetta (M5S), Giulia Pastorella (Azione) e Mattia Fantinati (Impegno Civico), l’intervista con Federica Zanella della Lega candidata alla Camera dei Deputati in Lombardia, parte della Commissione Trasporti, Poste e TLC nell’ultima legislatura.

Ritiene che il prossimo Governo debba “cambiare passo” prevedendo, invece di interventi normativi estemporanei, una “Legge Annuale sulla Transizione Digitale” che consenta di definire a livello normativo, finanziario ed operativo la realizzazione delle infrastrutture di comunicazione elettronica, così da assicurare una crescita uniforme dell’ordinamento italiano sulle telecomunicazioni, in particolare sul 5G?
«Assolutamente si, serve un cambio di passo ed una accelerazione non più procrastinabile. Nella scorsa legislatura, il tema delle telecomunicazioni, è stato affrontato in modo disomogeneo in più provvedimenti legislativi non sempre coordinati tra di loro. Siamo passati dai decreti semplificazioni a quelli sulla cybersicurezza e alla legge annuale sulla concorrenza senza un filo conduttore che avrebbe dovuto delineare la visione politica sull’intero comparto. In molte occasioni in provvedimenti diversissimi tra di loro sono state letteralmente infilate norme sulla transizione digitale o sulle telecomunicazioni, che complice il meccanismo della segnalazione emendativa, rimanevano precluse dall’esame parlamentare. Un altro fattore di instabilità può essere ricercato nella eccessiva frammentazione delle competenze in materia tra il Ministero dello Sviluppo economico e quello della transizione digitale. In particolare devono essere ridotte drasticamente le sovrapposizioni dei programmi, penso ad esempio alla responsabilità frammentata sul terzo asse del Piano strategico nazionale per le competenze digitali, quello dedicato alle competenze specialistiche, che vede affiancati, ma non coordinati, gli interventi dei Ministeri dello sviluppo economico, dell’Università e della ricerca, dell’Istruzione, insieme al coordinamento di repubblica Digitale. In conclusione ritengo che una legge annuale sulla transizione digitale sia di fondamentale importanza per il coordinamento normativo e una reale semplificazione amministrativa, per arrivare infine ad corpus normativo unico nel quale racchiudere tutta la normativa in materia».

Ritiene sia possibile prevedere, all’interno della riforma del Codice degli Appalti, oggi inclusa nei programmi di molti dei principali partiti politici, dei meccanismi finalizzati a premiare le imprese del settore ICT impegnate a sviluppare soluzioni innovative per le PA italiane, garantendo contemporaneamente elevati standard di sicurezza e affidabilità?
«Non mi limiterei alla riforma del Codice degli Appalti, che pure resta una riforma centrale per la nostra economia, ma nel rapporto con la PA e la sua digitalizzazione soprattutto per quanto riguarda il cloud. La tecnologia è centrale nello sviluppo economico e senza indipendenza tecnologica, non ci sarà sviluppo economico. Il Recovery Fund rappresenta un’occasione da non perdere. Quel che ancora sembra mancare è la volontà di fare quel salto che non è solo tecnologico e di crescita economica, ma di vera difesa della sovranità, italiana ed europea. Il valore ed il potere del cloud si ritrovano nei servizi e nel software, quindi è lì che il Paese dovrebbe investire (anche grazie al Recovery Fund) e concentrare maggiormente le proprie risorse.   Peraltro, centralizzare i server della PA non riduce di per sé i problemi di sicurezza, anzi per certi aspetti li aumenta. Il vantaggio del cloud consiste invece nel distribuire e copiare i dati su vari data-center creando così dei back-up in grado di sopravvivere a singoli eventi catastrofici. In altre parole, la maggiore sicurezza del cloud deriva dal suo modello distribuito, non dalla concentrazione in singoli silos. Inoltre, la creazione di un cloud di Stato potrebbe rivelarsi poco utile se, allo stesso tempo, non si proceda ad un’opera di trasformazione digitale della PA, il che comporta, inter alia, la reingegnerizzazione dei processi, l’interoperabilità dei dati e l’investimento sulla capacità informatiche del personale. Il dibattito sulla “cloudificazione” della PA non deve però farci dimenticare che tutto il Paese ha bisogno di una politica generale per il cloud, che deve incardinarsi nei processi europei in corso. L’obiettivo strategico delle tecnologie cloud è massimizzare il valore d’uso e il valore di scambio dei dati e abbattere le barriere all’accesso ai processi digitali da parte dei cittadini e delle piccole e medie imprese. Lo scopo ultimo del cloud è l’inclusione economica e sociale tramite l’interoperabilità degli scambi informativi, non la costruzione di casseforti digitali con le chiavi in mano alla politica. Per far questo serve contemperare la doverosa garanzia di sicurezza ed efficienza con l’impegno a mantenere un contesto di innovazione continua e concorrenza vivace, evitando di ricostituire l’Iri in salsa digitale. Questo piano dovrebbe puntare alla sovranità ed all’autonomia tecnologica del Paese in termini realistici, quindi non vagheggiando una (impossibile) autarchia italica nel settore, ma spingendo semmai per la crescita delle risorse interne, la diversificazione dei fornitori esteri e la non-dipendenza da specifici operatori, tecnologie o servizi, specie se extraeuropei. La crescita delle risorse interne dovrebbe essere trainata, laddove possibile, dalla forza d’acquisto della PA. Pertanto, occorrerebbe fare in modo che le gare CONSIP siano strutturate, quanto meno, in modo da permettere alle piccole-medie imprese (normalmente italiane) di poter competere ad armi pari con gli operatori globali (normalmente extraeuropei). Un altro settore di intervento dovrebbe essere quello della tutela della proprietà intellettuale, in particolare per le piccole e medie imprese che sono tra le più esposte al fenomeno tramite la reintroduzione di un patent box. L’OCSE ha dimostrato che l’Italia è il terzo Paese su scala mondiale ad essere maggiormente colpito dalla contraffazione, ciò significa danni per 32 miliardi carico delle imprese per le sole violazioni dei marchi, con un effetto sulla competitività e sulle entrate fiscali che per questi motivi sono diminuite di 10.3 miliardi con oltre 88.000 posti di lavoro persi in Italia. Sarebbe quindi importante riconoscere, alle micro e piccole imprese, un credito d’imposta per le spese sostenute per l’acquisto di prestazioni consulenziali di natura specialistica finalizzate a contrastare la contraffazione di marchio e prodotto e a tutelare la proprietà intellettuale attraverso attività di monitoraggio delle diverse tipologie di siti e portali online, di cancellazione dei contenuti illegali e di tutte le attività propedeutiche e successive all’azione medesima. Da ultimo segnalo la necessità che il nuovo Governo dovrà portare a compimento il Ddl di revisione della proprietà intellettuale come previsto dal Pnrr. E parlando di proprietà intellettuale, brevetti, innovazione, digitale, mi permetto di ricordare la nostra proposta di un Ministero dell’Innovazione a Milano, da sempre un crocevia strategico per quanto concerne queste tematiche: sarebbe importante che un Ministero che dovrebbe guidare l’Italia nel futuro, potesse operare a contatto diretto con l’ecosistema economico, finanziario dell’innovazione, dell’università, dei centri di ricerca, che trova il suo centro a Milano e Lombardia, estendosi da un lato verso Padova e Bologna e dall’altro verso Genova e Torino».

Come si dovrà muovere il prossimo Governo, a vostro parere, per spingere maggiormente lo sviluppo delle key enabling technologies (come ad es. l’High Performance Computing), in modo da riuscire a colmare i gap che l’Italia ancora sconta rispetto ai principali partner europei?
«I KETs sono fondamentali per lo sviluppo industriale del nostro Paese, individuabili nel settore delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, nanotecnologie, materiali avanzati, biotecnologie, fabbricazione e trasformazione avanzate e spazio. Le infrastrutture High Performance Computing (HPC) rappresentano una risorsa essenziale a livello nazionale ed europeo, per rendere l’economia e l’industria italiane più competitive. Nei primi tre anni di attività di EuroHPC, le università, gli enti di ricerca e le industrie italiani sono stati protagonisti in tutti i bandi competitivi. Nei bandi infrastrutture l’Italia è riuscita ad aggiudicarsi uno dei tre sistemi pre-exascale del valore di 240 miliardi di euro (CAPEX+OPEX). Nei bandi per progetti di ricerca si è sempre attestata fra i primi tre paesi europei per tasso di successo, partecipando a 20 progetti fra i 35 finanziati e collezionando fra il 20% e 30% dell’investimento totale dei bandi. È di tutta evidenza che il prossimo Governo dovrà trovare e stanziare le risorse necessarie per colmare il gap con gli altri paesi europei. Per raggiungere questo obiettivo è necessaria una seria pianificazione organizzativa ed una armonizzazione normativa che deve trovare il suo fulcro in un maggiore coordinamento tra il Ministero dello Sviluppo economico e quello della transizione digitale».

Quali ritiene che possano essere le misure principali da mettere in campo per sostenere le imprese che decidono di investire per rafforzare i propri sistemi di cybersecurity?
«Uno dei concetti emergenti nel dibattito europeo sulla cyber-governance è quello di “sovranità digitale”: un’espressione che rimanda alla capacità dell’Unione di agire in maniera indipendente nel mondo digitale, sia nell’ottica di garantire ai cittadini europei il controllo sui loro dati anche quando questi siano forniti ad aziende non europee, sia per promuovere innovazione digitale e colmare così il crescente gap nei confronti di Usa e Cina. L’autonomia strategica nazionale rappresenta uno dei key-pillars della “Strategia nazionale di cybersicurezza 2022-2026” recentemente approvata dal Governo. Il documento strategico, infatti, ha individuato tre obiettivi fondamentali da perseguire: protezione, risposta e sviluppo. Proprio con l’obiettivo “sviluppo”, il Paese intende dare una risposta all’emergente bisogno di maturare a livello nazionale ed europeo la capacità di creare delle idonee tecnologie digitali, implementare attività di ricerca avanzata e stimolare la competitività industriale affinché si possa essere in grado di rispondere alle nuove esigenze di un mercato effervescente e in continua evoluzione. È intenzione del Governo, pertanto, ridurre la dipendenza da tecnologie straniere, attraverso l’avvio di dedicate progettualità da realizzarsi anche grazie al ricorso a finanziamenti nazionali ed europei che consentiranno la crescita e il consolidamento di un’industria cyber competitiva e indipendente. La lega ha ben presenti quali e quanti possono essere i rischi della sottovalutazione della cybersicurezza e quindi ha messo tra gli obiettivi del suo programma proprio la sicurezza informatica.  Decontribuzione specifica per sostenere il settore che più di tutti farà assunzioni nel prossimo quinquennio e che oggi non riesce, a causa dell’elevato costo del lavoro, ad essere competitivo con le offerte che arrivano da aziende estere con particolare riferimento a quelle extra europee. Va tenuto presente che il settore Cybersecurity ha standard retributivi alti, per i parametri nazionali. Quindi tutte le misure che hanno come limite i redditi sino a 35 mila euro, ad esempio, sono totalmente inefficaci a sostenere le politiche del lavoro. Voucher Cybersicurezza: Per alzare davvero i livelli di protezione serve acquistare servizi di nuova generazione, ad alto valore aggiunto. È necessario che la platea di soggetti a cui sarà richiesto un elevato livello di protezione siano sostenuti con un sistema di voucher e crediti d’imposta, che sostengano gli acquisti di servizi cyber con la finalità di consentire a tutti l’accesso alle tecnologie più moderne ed efficaci».

Per contrastare la crisi derivante dall’aumento dei prezzi dell’energia, una delle ipotesi sul tavolo è che venga allargata la platea delle aziende cd. “energivore” (le quali ottengono crediti d’imposta e benefici fiscali per questa specifica categorizzazione), ad esempio alle aziende delle telecomunicazioni, uno dei settori industriali a maggior consumo energetico. Che cosa ne pensa?
«Penso che le aziende delle telecomunicazioni abbiano svolto un ruolo determinante per il nostro paese durante la pandemia permettendoci di poter continuare a tenerci in contatto con gli affetti dai quali eravamo fisicamente separati. Si tratta poi dell’unico vero settore concorrenziale in Italia con una politica dei prezzi che crea una grande volatilità. Ritengo quindi che gli interventi sui prezzi dell’energia vengano allargati alle imprese di telecomunicazioni, sapendo al contempo che una soluzione al problema deve essere trovata a livello europeo. La filiera delle Telecomunicazioni riveste un ruolo strategico per il Sistema-Paese. Si pensi, in particolare, agli ingenti investimenti in infrastrutture messi in atto dalle imprese per la digitalizzazione del Paese. Tuttavia, da anni gli Operatori registrano forti difficoltà in termini di sostenibilità economico-finanziaria, a causa di un mercato ipercompetitivo e di calo strutturale dei margini e dei ricavi».

Alla luce del quadro sopra indicato, quali misure strutturali ritiene siano prioritarie per arginare tali difficoltà e permettere alle aziende di continuare ad investire per completare la diffusione delle reti e dei servizi di connettività e raggiungere gli obiettivi di digitalizzazione previsti dal PNRR?
«Come evidenziato anche nell’ultimo rapporto DESI, l’Italia risulta in ripresa – si è classificata 7° in termini di connettività – sebbene i molteplici e fondamentali interventi previsti dal PNRR siano ancora agli albori per quanto concerne la realizzazione dei cantieri. Per l’attuazione degli interventi sulle infrastrutture digitali previsti dal PNRR – e ulteriormente dettagliati nella nuova Strategia italiana per la Banda Ultra larga (BUL) – sono stati stanziati €6,7 miliardi, risorse che serviranno a finanziare i cinque piani che compongono la Strategia: Italia a 1 Giga; Italia 5G; Scuole connesse; Sanità connessa; Isole Minori. Per realizzare un’adeguata infrastruttura tecnologica in grado di supportare la crescita digitale del paese, per consentire a tutti i cittadini, anche nei luoghi più dispersi (e su questo l’azione di chi si dove occupare di aree bianche sconta gravi ritardi…) di poter accedere ai servizi digitali e dare la possibilità a tutte le aziende su tutto il territorio nazionale di essere competitive anche con le omologhe straniere è necessario favorire la costituzione di una rete unica sul territorio nazionale, anche attraverso l’integrazione delle infrastrutture esistenti, che possa garantire il raggiungimento degli obiettivi di connessione ultraveloce «a prova di futuro» previsti a livello europeo e nazionale. Per la strutturazione della rete visti i cronici ritardi nella realizzazione della rete è fondamentale coinvolgere i Presidenti delle regioni quali commissari per la connettività e la realizzazione della banda ultra larga. A questa iniziativa si potrebbe, poi, aggiungere l’individuazione da parte degli Enti locali di una figura terza che individui il posizionamento e l’installazione di infrastrutture tecnologiche per non lasciare alle sole imprese la scelta dei siti e semplificare l’iter autorizzativo. Negli ultimi mesi, infine, abbiamo assistito alla totale carenza di manodopera qualificata per la posa delle opere necessarie alla realizzazione della banda ultra larga. Il fenomeno si ripercuote su una situazione già gravemente provata da ritardi e rincari dei materiali. Anche in questo caso è fondamentale il coinvolgimento degli enti locali per trovare la manodopera specializzata».

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