Food
Gastrodiplomazia: il potere della cultura culinaria anche per promuovere la pace
Di Ilaria Donatio
A parlare per la prima volta di “gastrodiplomazia” pare sia stato, nel 2002, l’Economist in un articolo in cui si raccontava come, in Thailandia, il cibo fosse diventato uno strumento di autopromozione. Si trattava del programma Global Thai: l’obiettivo era di portare in un anno il numero di ristoranti thai nel mondo da 5500 a 8 mila, e aumentare così le esportazioni di prodotti alimentari, probabilmente anche per controbilanciare la percezione negativa causata dalla reputazione del Paese come meta per il turismo sessuale.
A più di vent’anni di distanza questo termine è sicuramente più diffuso e utilizzato: perché, oggi, la gastrodiplomazia è qualcosa di molto più complesso, sfaccettato e, soprattutto, utile.
Un neologismo nato dall’unione dei concetti di “gastronomia” e “diplomazia” per indicare una fusione tra cultura culinaria e relazioni internazionali con l’obiettivo di promuovere scambi culturali, commerciali e cooperazione economica tra Paesi diversi.
Spiega Simone Cinotto, Professore Associato di Storia Contemporanea all’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo: “Una definizione che possiamo riassumere dicendo che contribuisce a rendere più gradevole l’identità di un paese: nel caso dell’Italia, per esempio, il cibo è sempre stato parte della nostra identità, ma questa consapevolezza si sta sempre più delineando come strumento anche per altri paesi”.
K-food
La Corea del Sud si è ormai affermata come produttrice di cultura, basti pensare al successo globale del Kpop, dei film e delle serie prodotte a Seul. Ora è il turno della sua cucina che sta conquistando i palati occidentali. La popolarità della cucina coreana è anche il risultato di strategie politiche a lungo termine. Nel 2009, il governo sudcoreano ha avviato una campagna da 40 milioni di dollari denominata “Korean Cuisine to the World”, con l’obiettivo di migliorare la reputazione del paese attraverso il suo cibo e attirare turismo gastronomico.
Il Giappone
Il caso del Giappone è particolarmente interessante perché, come per l’Italia, propone una cucina già molto nota. In tutto l’Occidente il sushi è una proposta culinaria apprezzata da anni ormai e, proprio per questo, si è normalizzata e non alimenta più quella curiosità che serve da volano per stimolare un interesse più ampio. Così, il Giappone ha mirato a contrapporre proposte gastronomiche più autentiche e raffinate alla generica “cucina giapponese” ormai appiattita sui diversi gusti nazionali. Dal 2013, la washoku, la cucina tradizionale consumata abitualmente nelle case giapponesi, è uno dei patrimoni culturali immateriali dell’umanità dell’UNESCO.
L’Italia
La cucina italiana occupa da sempre un posto speciale nell’immaginario globale: un potente traino che sostiene interi comparti industriali. I nostri piatti e le nostre specialità sono nel cuore di moltissime persone in tutto il mondo e costituiscono una forma di soft power tra le più potenti. Il successo del cibo italiano è però partito dal basso, dai nostri migranti, quasi mai è stato favorito e incentivato dall’alto.
Solo un sogno?
In un mondo sempre più attraversato da conflitti e dove la diplomazia tradizionale troppo spesso fallisce, c’è sempre più bisogno di soft-power: di persuadere, convincere, attrarre e cooptare tramite risorse intangibili quali cultura, valori e istituzioni della politica. Chissà che così la diplomazia gastronomica non riesca ad appianare alcune divergenze?