Food
Gastro-diplomazia: lo strumento del soft power in difesa della carbonara (e degli altri piatti sacri)
Di Simone Zivillica
Può succedere che un innocuo, si fa per dire, tweet più che cinguettare gracchi come una cornacchia poco intonata, instaurando una querelle che si iscrive a pieno titolo nell’alveo delle azioni di gastro-diplomazia. Se il megafono, poi, è quello del New York Times, l’innocenza lascia il passo alla provocazione. Il tema è la cucina e il bersaglio è l’Italia. Il tweet riporta la foto di un piatto di pasta non ben identificabile con la didascalia “I pomodori non rientrano nella ricetta della carbonara, ma regalano al piatto un sapore più brillante”. Apriti cielo. Non bastava la panna, che come disse qualcuno andrebbe sui coni gelato, magari doppia, ora anche il pomodoro e, ça va sans dire, la pancetta al posto del guanciale.
Come fa notare un commentatore italiano “please, it’s not the pork’s belly, it’s the cheek” (per piacere, non ci va la pancia del maiale, ma la guancia). La notizia, se così la si vuol chiamare, non è comunque nuova. La ricetta campeggia sul sito dedicato alla cucina del New York Times già da un anno, ma solo un paio di giorni fa l’hanno voluta rilanciare sul loro profilo Twitter per riaccendere il tifo intorno a una delle ricette di pasta più famose del mondo, e più bistrattate, ma soprattutto più copiate. Proprio il tema dell’imitazione fa da capofila per considerare l’importanza della tavola nelle relazioni internazionali, se non quelle che riguardano movimenti finanziari, armamenti e piazzamenti geopolitici, quantomeno quelli inerenti la cultura nonché tutto l’indotto economico che si porta con sé. Lo strumento in ballo si chiama gastro-diplomazia ed è uno dei tool più utili nell’affermazione delle peculiarità culturali e gastronomiche di un paese, nel nostro caso del made in Italy.
All’epoca della pubblicazione sul quotidiano statunitense la Coldiretti si era mossa per chiedere, quasi con una preghiera, di “smetterla con questo scempio” riferendosi alla continua imitazione di ricette che fanno parte del patrimonio culinario, e quindi culturale, italiano. Come riportato allora dal Guardian – per dare la cifra dell’internazionalità e spessore della vicenda – la Coldiretti teneva il punto dell’originalità, e quasi sacralità, di una ricetta come la carbonara perché “il vero rischio è che un falso piatto made in Italy attecchisca nella cucina internazionale, togliendo il piatto autentico dallo spazio del mercato, e banalizzando le nostre specialità locali che nascono da tecniche e territori unici”. Quando si parla di gastro-diplomazia, viene da sé, entrano in gioco le associazioni di categoria, illustrando limpidamente le posizioni del made in Italy. La carbonara, appunto, è solo uno e forse il maggiormente tradito e falsificato tra i piatti della tradizione italiana. “La caprese – continua Coldiretti sul Guardian – viene servita con formaggio industriale al posto della mozzarella di bufala o del fior di latte, mentre ci sono anche casi di pasta al pesto servita con mandorle, noci o pistacchi al posto dei pinoli”.
Se può sembrare una polemica superficiale e relegata agli amanti della cucina o ai patiti di Masterchef, basti considerare un dato, tra i tanti, che invece fissa il discorso sull’autenticità dell’agroalimentare e della gastro-diplomazia a un livello decisamente serio e valevole di attenzione giornalistica e politica. Nel solo 2021, infatti, il volume d’affari fatto segnare dall’export agroalimentare italiano si è attestato a 52 miliardi di euro. Ecco, il discorso già si fa più concreto. E sì, la salvaguardia dell’originalità di una ricetta, così come dei suoi ingredienti, è uno strumento di diplomazia.
Se si parla di gastro-diplomazia, si sarebbe portati a pensare che l’Italia sia ai primi posti nell’attività politica di promozione e, soprattutto, salvaguardia del proprio patrimonio agroalimentare nel mondo, e invece siamo superati da realtà nazionali o regionali principalmente dell’est, oltre che – ovviamente – dalla Francia che ha fatto e continua a far scuola sul tema. Come aveva fatto notare il presidente della Federazione italiana pubblici esercizi (Fipe) Lino Enrico Stoppani il quale rilevava un forte “dinamismo che caratterizza alcuni Paesi nel richiedere all’UNESCO il riconoscimento delle loro eccellenze, con l’assegnazione del marchio di Patrimonio mondiale dell’Umanità”. Questo in cucina si traduce, per esempio, con un forte interesse dei paesi asiatici come ad esempio il Giappone che dapprima aveva richiesto l’inserimento della sua cucina tra il Patrimonio Intangibile Universale, seguito a ruota dalla Corea con il Kimchi, un piatto a base di cavolfiore fermentato.
Il fenomeno può essere definito come Nation Branding, il cui obiettivo è quello di promuovere le peculiarità culturali, artistiche, gastronomiche del proprio territorio, affinché queste diventino alfieri di una corsa a una competitività sempre più agguerrita e con sempre più concorrenti. Una corsa al cui traguardo ci sono opportunità golose, tra export e affermazione della qualità dei propri prodotti che identificano il nostro territorio e la nostra nazionalità. Come aveva già avvisato il presidente Fipe Stoppani, tutti i giocatori devono fare al meglio il proprio ruolo, e se si parla di agroalimentare, “i ristoranti sono chiamati a fare la loro parte, diventando la miglior vetrina delle nostre eccellenze, rafforzando l’immagine dell’italian style fondato su qualità, eleganza, stile, professionalità e accoglienza. C’è nuova consapevolezza sul tema: le strategie di soft power impongono un approccio illuminato anche alle politiche di settore”.