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Dalla Biennale al Vinitaly, Baratta si riscopre viticultore di successo
Di Gianfranco Ferroni
Tanti produttori, a Vinitaly. Verona quest’anno ha attirato ancora di più vip di ogni tipo, pronti a versare nei bicchieri il nettare delle loro bottiglie. C’è anche Tenuta Monteti in Toscana, situata nella bassa Maremma sotto Capalbio: è un’azienda a conduzione famigliare fondata da Gemma e Paolo Baratta nel 1998, e gestita con passione e determinazione a partire dal 2010 dalla loro figlia Eva Baratta e dal marito Javier Pedrazzini. Ad oggi sono stati impiantati 28 ettari di vigneto con 6 diversi vitigni a bacca rossa: Cabernet Sauvignon, Cabernet Franc, Petit Verdot, Alicante-Bouschet, Merlot e Mourvèdre, vitigni internazionali che hanno ormai trovato in queste colline mediterranee e arcaiche una identità personale, con l’esclusione di un vitigno tradizionale per il territorio, come il Sangiovese. Tenuta Monteti ha avuto molto chiaro il progetto sin dall’inizio: produrre vini in grado di ritrarre i vari elementi del panorama circostante; ed ha iniziato con il Monteti e il Caburnio, “fratelli diversi” uniti dalla stessa ricerca stilistica in personalità ed eleganza. Nel Monteti si vuole esprimere la forza delle pietre e la natura
incontaminata dei boschi, nel Caburnio c’è la ricerca della solarità della Maremma con le sue fragranze mediterranee.
Paolo Baratta, milanese, classe 1939, è un ingegnere-economista che nel mezzo di una carriera dedicata alle istituzioni pubbliche, come l’indimenticabile periodo passato alla guida della Biennale di Venezia, e la stagione del Crediop, ha deciso di realizzare un progetto privato: creare un vigneto di famiglia, ricordando gli anni della gioventù tra le vigne dell’Oltrepo. Lo ha fatto, racconta, «con rigore e visionarietà, approfondendo conoscenza e strumenti, con determinazione, guardando al futuro, anticipandolo».
La ricerca del luogo per il loro vigneto indirizza i Baratta verso la Toscana, dove si fermano distanti da contesti già consacrati alla viticoltura, in una Maremma defilata ma genuina, libera dalla presenza dirompente dell’uomo. Identificano una valle circoscritta e protetta da un colle, quel Monteti che poi ha dato il nome all’azienda, con il
mare a pochi chilometri, con una piccola casa diroccata su una altura limitrofa, tanti sassi, con la consapevolezza di essere nel posto giusto per una sfida, in una terra ancora inesplorata dal punto di vista della produzione vinicola di alta qualità. E poi dalla cima del Monteti si vedeva una Toscana ancora medievale, arcaica, dalla natura incontaminata, e le strade che puntavano verso Manciano e Pitigliano disegnavano un affresco di dolci colline, alternate a boschi e campi a perdita d’occhio. Insomma, avevano trovato il loro luogo magico.
Liberare quel terreno dai sassi è stata la prima cosa da fare, un’impresa faraonica sia per la maestosità dei massi scavati, diventati poi simbolo dell’azienda, che per il riutilizzo di quelli via via sempre più piccoli, impiegati per gestire i drenaggi del suolo. Fin dall’inizio la famiglia aveva ben chiaro in mente che vini produrre, la personalità e la voce che questi dovevano avere. Vini dalla netta impronta identitaria, eleganti e in sintonia con l’ambiente. Per questo la selezione dei vitigni da impiantare è andata oltre la tradizione locale, supportata dalla collaborazione con
l’enologo Carlo Ferrini, in una concezione del vigneto plasmato sul territorio. E la cantina, costruita successivamente, doveva essere funzionale a quel grande lavoro in vigna. E arrivare a Vinitaly.