Alessandra Biondi Bartolini è agronoma e direttrice scientifica di Millevigne, rivista di viticoltura ed enologia. Con lei abbiamo parlato del binomio agricoltura e innovazione, delle sfide che entrambe hanno davanti e degli investimenti per diventare più sostenibili.
Nell’immaginario collettivo si associa l’agricoltura alla natura e i paesaggi agrari ai paesaggi naturali, ma così non è: l’uomo da sempre seleziona e modifica le piante e gli animali che gli erano utili e l’ambiente dove li coltivava e li allevava. Da quando agricoltura e innovazione hanno una relazione virtuosa?
«Da quando è diventato agricoltore, l’uomo ha sempre innovato e ha sempre plasmato il territorio e il paesaggio per i suoi scopi di produzione. Non avremmo le piante coltivate che abbiamo oggi. Per la vite è lo stesso: la domesticazione è avvenuta nella Mezzaluna fertile migliaia di anni fa e grazie all’attività di selezione e incrocio pilotata dall’uomo, si sono avute le varietà che oggi coltiviamo nelle nostre regioni e denominazioni. Però è vero che per millenni è stato l’empirismo a guidare il miglioramento della tecnica: si osservava qualcosa, si provava un comportamento e si continuava a farlo, spesso, senza avere la minima idea del perché qualcosa avvenisse. È però anche vero che come in tutti i campi, a un certo punto, c’è stata una forte accelerazione: sia perché la scienza ha dato un impulso alla spiegazione dei fenomeni sia perché sono arrivati i nuovi input della rivoluzione verde delle macchine e dei fertilizzanti».
In viticoltura quando è avvenuto, per esempio?
«In viticoltura, il grande cambiamento e lo stimolo per una viticoltura di qualità, con le colture specializzate, si è avuto dopo la crisi fillosserica, ai primi del ‘900. Ma l’altra grande spinta a lasciare le produzioni di massa e dedicarsi alla via della qualità è stata la crisi che ha conosciuto il settore dopo lo scandalo del metanolo. Quindi si potrebbe pensare che il settore del vino, per cambiare e cominciare a innovare, ha avuto bisogno di qualche “scrollone”. Come quello successivo agli Anni ’90, quando quel modello ha cominciato ad avere qualche crepa, sebbene – sia chiaro – il clima e il movimento di innovazione di oggi è continuo e non è neanche paragonabile a quello che avveniva in passato. Dalla digitalizzazione in vigneto e in cantina, al miglioramento genetico della vite, alla conoscenza delle interazioni della pianta con l’ambiente e con i microbi, buoni e cattivi, i segnali di un miglioramento imminente e in corso ci sono già tutti. Il problema è che il giornalismo enogastronomico e le fonti di informazione preferiscono parlare del mondo rurale come di un luogo dove gli uomini e le donne vivono immersi nella natura e basta».
Quali sono oggi le grandi sfide che l’agricoltura dovrà affrontare?
«La crisi climatica è la sfida più urgente per il nostro pianeta e tra i modelli produttivi che devono cambiare per affrontarlo c’è proprio l’agricoltura. In viticoltura molte cose stanno cambiando con una velocità che non ha precedenti. Il sistema della qualità basato sul terroir stesso è messo in crisi dal riscaldamento globale e dalle sue conseguenze. E poi ci sono le avversità: le malattie delle piante coltivate e gli insetti dannosi si diffondono in modo diverso e la sfida è difendere le colture pur riducendo l’uso dei cosiddetti pesticidi. Tutto questo a fronte di una popolazione globale che aumenta e per la quale occorre produrre sempre più cibo. Ma anche dai mercati arrivano dei segnali importanti: per la viticoltura ad esempio i dati dicono che i consumi cambiano e che il vino, così come altri alcolici, si trova di fronte a qualche criticità».
Si parla molto di sostenibilità, che cosa serve a viticoltura e più in generale all’agricoltura per diventare più sostenibile?
«Investimenti in ricerca e apertura mentale, anzitutto. Bisogna smettere di coltivare la propria vigna (dentro e fuori di metafora), abbandonare le posizioni ideologiche e guardare al risultato complessivo. E l’agricoltura deve prendere atto che come gli altri settori produttivi è parte del problema e deve cominciare a fare la propria parte nella riduzione delle emissioni che sono causa dei cambiamenti climatici. Le crociate ideologiche contro tecniche e prodotti innovativi non servono realmente né agli agricoltori né ai consumatori. Occorre partire dalle conoscenze e dalla scienza per migliorare l’accettazione nei produttori e nel pubblico nei confronti degli strumenti e le innovazioni che abbiamo a disposizione. Ma questo implica che tutti gli sforzi per la sostenibilità, purchè misurabili, possano essere premiati anche a livello politico, indipendentemente dagli strumenti che si usano e dal fatto che un produttore sia convenzionale o biologico per fare un esempio. Se migliaia di viticoltori convenzionali riducono il numero di trattamenti in vigneto del 20 o 30% perché riescono a farlo grazie, ad esempio, a un sistema di raccolta ed elaborazione dei dati meteo, per l’ambiente il vantaggio è grande. E poi serve partecipazione e accesso facilitato all’innovazione: i progetti che funzionano di più sono quelli che prevedono la partecipazione di tutti gli anelli della filiera, dagli scienziati, ai viticoltori, alle aziende che ingegnerizzano e rendono l’innovazione disponibile. E personalmente trovo estremamente interessanti e coinvolgenti tutti i progetti di scienza partecipata come quelli nei quali alle persone comuni si chiede di segnalare con una app la presenza e la diffusione degli insetti alieni».
Mi dica tre grandi linee di innovazione che possono aiutare ad affrontare queste sfide…
«La prima è la digitalizzazione: sensori, droni, tracciabilità, uso dei materiali innovativi derivanti dall’economia circolare sia in campo sia nel packaging dei prodotti. Poi, attenzione al suolo, alle radici, alle interazioni della pianta con i microorganismi e alla fertilità del suolo. Infine, genetica: le varietà resistenti attuali e quelle che potrebbero essere realizzate con il Genome editing ridurrebbero di certo l’uso dei fitofarmaci. Ecco, queste innovazioni per me segneranno il futuro del mondo del vino e dell’agricoltura».