Fill the gap
Censis, è allarme demografia ma agli italiani importa poco
Di Giampiero Cinelli
È uscito il 57° Rapporto del Censis, che dà una sempre attesa fotografia del Paese, inquadrandone la situazione sociale. L’istituto sviscera dati, analisi e sondaggi su svariati aspetti che caratterizzano la collettività e ne intercetta gli aspetti più critici.
Il quadro
Uno dei tratti attualmente problematici è la demografia e l’atteggiamento degli italiani nei confronti del generare famiglia. Come sappiamo, e com’è osservato nel rapporto, «nel 2050 l’Italia avrà perso complessivamente 4,5 milioni di residenti (come se le due più grandi città italiane, Roma e Milano
insieme, scomparissero). Questo dato sarà il risultato composto di una diminuzione di 9,1 milioni di persone con meno di 65 anni (-3,7 milioni con meno di 35 anni) e di un aumento di 4,6 milioni di persone con 65 anni e oltre (e +1,6 milioni con 85 anni e oltre)».
Meno donne, meno fecondità
Peggio ancora, «attualmente le donne in età feconda (convenzionalmente, la popolazione femminile di 15-49 anni di età) sono 11,6 milioni, nel 2050 diminuiranno di più di 2 milioni di unità, generando un insormontabile vincolo oggettivo per ogni tentativo di invertire nel breve termine il declino della natalità».
La sfiducia
Ma le speranze demografiche sono quasi certamente disattese anche da fattori non tangibili, inerenti alla psiche comune. Citando dal rapporto, i cittadini appaiono: «resi più fragili dal disarmo identitario e politico, al punto che il 56,0% (il 61,4% tra i giovani) è convinto di contare poco nella società; feriti da un profondo senso di impotenza, se il 60,8% (il 65,3% tra i giovani) prova una grande insicurezza a causa dei tanti, diversi, inattesi rischi; delusi dal ciclo storico della globalizzazione, che per il 69,3% avrebbe portato all’Italia più danni che benefici; rassegnati a un destino nazionale in ridimensionamento, se l’80,1% è convinto che dalle passate emergenze ne è uscita una Italia in declino (e il dato sale all’84,1% tra i giovani)».
Inoltre, va considerato che il calo demografico porterà un indebolimento dell’economia nel lungo termine e la perdita di capacità produttiva deve anche essere vista alla luce delle conseguenze indirette sulla natalità, un riflesso non automatico ma che spesso si ravvisa nelle società occidentali avanzate.
Le famiglie, come siamo messi
«Le famiglie in Italia sono complessivamente 25,3 milioni. Quelle tradizionali, composte da una coppia, con o senza figli, sono il 52,4% del totale. Pur essendo in calo nel tempo (erano il 60,0% nel 2009), rappresentano ancora la forma principale di famiglia. Di queste, il 32,2% (8,1 milioni) è formato da una coppia con figli (nel 2009 la percentuale era del 39,0%)». Da notare peraltro che «Il numero dei matrimoni si riduce (ne erano stati celebrati 246.613 nel 2008, solo 180.416 nel 2021) e oggi esistono 1,6 milioni di famiglie (l’11,4% del totale) costituite da coppie non coniugate. Dal 2018 al 2021 state celebrate 8.792 unioni civili (all’inizio del 2022 in Italia risultavano 17.453 cittadini residenti uniti civilmente). I cittadini stranieri oggi sono presenti in 2,6 milioni di nuclei familiari (il 9,8% del totale), e 1,8 milioni di famiglie (il 7,0% del totale) sono composte esclusivamente da cittadini stranieri.
Le nuove famiglie
Parallelamente aumentano le pressioni verso il riconoscimento di nuove forme familiari, di pari passo con la lotta per i diritti civili inerenti alla procreazione e alle relazioni. Se ovviamente le unioni omossessuali non collimano con l’idea di aumentare la natalità, è pur vero che solo il 34,4% degli italiani è favorevole alla “gestazione per altri”, una pratica sicuramente controversa dal punto di vista etico e in Italia illegale che però andrebbe contro la dinamica del calo delle nascite, anche a favore delle coppie omosessuali, per le quali l’adozione è sostenuta dal 54,3% della popolazione, mentre l’adozione da parte dei single viene caldeggiata dal 70,3%.
Chi emigra
Altro elemento a detrimento della natalità è l’intensificata emigrazione degli italiani verso l’estero. Il Censis nel rapporto si esprime così:
«Il nostro Paese continua a essere un Paese di emigrazione (sono più di 5,9 milioni gli italiani attualmente residenti all’estero) più che di immigrazione (sono 5 milioni gli stranieri residenti nel nostro Paese). I 5.933.418 italiani residenti all’estero (pari al 10,1% dei residenti in Italia) hanno registrato un incremento del 36,7% negli ultimi dieci anni (ovvero quasi 1,6 milioni in più). A caratterizzare i flussi centrifughi più recenti è l’aumento significativo della componente giovanile. Nell’ultimo anno le iscrizioni all’Aire per espatrio sono state 82.014, di cui il 44,0% (la quota più elevata tra le classi di età considerate) da parte di italiani di 18-34 anni, per un totale di 36.125 giovani che hanno scelto di cercare altrove la propria strada, definitivamente o per un periodo transitorio. Se si aggiungono anche i minori al seguito delle loro famiglie (13.447), l’espatrio delle nuove generazioni di italiani ha sfiorato nell’ultimo anno le 50.000 unità, il 60,4% di tutti gli iscritti per espatrio. Le mete predilette rimangono il Regno Unito (il 16,4% delle partenze dell’ultimo anno), poi Germania (13,8%), Francia (10,4%) e Svizzera (9,1%)».
I desideri minori
In generale, nel rapporto si parla di un tempo caratterizzato da «desideri minori», un tempo in cui sempre meno italiani desiderano l’affermazione sociale, professionale e l’espansione dei consumi, ma «un benessere minuto». Allora «non sorprende, che il 62,1% degli italiani avverta il desiderio quotidiano di momenti da dedicare a sé stessi per combattere l’ansia e lo stress, o che un plebiscitario 94,7% consideri centrale la felicità delle piccole cose di ogni giorno, come appunto il tempo libero, gli hobby, le passioni personali. Rispetto al passato, l’81,0% degli italiani dedica molta più attenzione alla gestione dello stress e alla cura delle relazioni, perni del benessere psicofisico personale. Perché questa rinnovata gerarchia di valori emerge proprio adesso? Non si tratta di estemporanee mode o attitudini generazionali. Di certo, le successive emergenze, amplificando il senso di vulnerabilità individuale, hanno attivato un ripensamento diffuso del senso della vita e delle cose importanti a cui dedicare le proprie energie. Ma, in aggiunta, si tratta dell’esito dei processi di lunga deriva, come la decrescente redditività degli investimenti sociali – dallo studio al lavoro –, con il conseguente ripiegamento sul presente».
«Ciechi davanti ai presagi»
Dunque sembra ancora più chiaro, sulla scorta di queste considerazioni psicosociali, che la spinta a fare figli, che è anzi un progetto di grande portata e motivazione, ne esca profondamente indebolita. Ebbene, nel rapporto gli analisti non esitano a definire i connazionali «ciechi davanti ai presagi», registrando uno strano clima di «bonaccia» non coerente con le sfide incombenti e con i futuri «effetti dirompenti» previsti dallo studio. Prevale in questo periodo una dinamica di adattamento allo status quo, con paure che sì emergono, ma riguardano pericoli possibili sebbene più difficilmente calcolabili, come catastrofi dovute al cambiamento climatico, pressioni migratorie troppo dannose, guerre, il defaualt e la mancanza di sufficienti riserve energetiche.