Emmanuel Macron sarà il presidente francese fino al 2027: battendo in un ballottaggio fotocopia di cinque anni or sono la sua rivale Marine Le Pen, populista e sovranista, Macron, liberale ed europeista, è divenuto il primo presidente francese confermato per un secondo mandato dal 2002, quando Jacques Chirac sconfisse il padre di Marine, Jean-Marie Le Pen. La vittoria di Macron, 44 anni, netta – quasi il 59% a poco più del 41% -, dissipa un incubo che gravava sull’Ue: Le Pen presidente avrebbe significato una stasi del processo d’integrazione, una battuta d’arresto forse letale, anche perché avrebbe fatto da polo d’attrazione per altre spinte populiste e sovraniste, in Italia in primo luogo, ma anche altrove, in Spagna e nei Paesi del Gruppo di Visegrad.
La buona notizia francese, abbinata a quella slovena – a Lubiana, le politiche sono state vinte dal liberale europeista Robert Golob, sul premier ultra-conservatore Janez Jansa, vicino al Gruppo di Visegrad –, può ridare slancio all’integrazione: il sollievo è palese, nelle reazioni e nei commenti di tutti i leader europeisti.
A Bruxelles e in molte capitali dell’Unione c’era il timore – espresso in modo icastico dal Washington Post – che “Le Pen presidente della seconda potenza economica Ue e dell’unica potenza nucleare avrebbe causato lo sgretolamento delle istituzioni comuni”.
La vittoria di Macron offre continuità alla Francia e altri cinque anni di stabilità politica francese all’Unione europea. “Buona notizia”, “splendida notizia”, “un voto di fiducia nell’Europa”: gli echi europei del voto francese sono molto simili: c’è la consapevolezza che hanno perso l’anti-europeismo, Putin, il sovranismo nazionalista.
Ma le elezioni francesi non avevano solo un impatto europeo, anche per la vicinanza, più volte manifestata, della candidata sovranista al presidente russo Vladimir Putin (e per la dipendenza del suo movimento dai finanziamenti russi). Il risultato impatta, dunque, sulle relazioni di Ue e Nato con la Russia e sul sostegno all’Ucraina, oltre che sulle speranze di pace perché Macron è stato il leader europeo più attivo nel mantenere il dialogo con Mosca e con Kiev; e sulle politiche dell’Europa verso i migranti, perché nel Rassemblement National sono evidenti le striature xenofobe.
Non ci sono solo luci nella vittoria di Macron di domenica, perché il presidente ritrova un Paese diviso: l’estrema destra di Le Pen, 53 anni, va oltre, per la prima volta in un voto presidenziale, il 40%; e l’astensione record, vicina al 30% e elevata soprattutto fra i giovani, testimonia le difficoltà della politica a rispondere alle aspettative dei cittadini.
Il discorso della vittoria, Macron non l’ha infarcito di promesse: ascolto, ambiente, Europa, i temi forti. E mentre i suoi sostenitori festeggiavano tra Torre Eiffel e Trocadéro, altrove a Parigi e in molte città francesi c’erano proteste dell’estrema destra e dell’estrema sinistra.
In questo contesto, le politiche di giugno sono un’incognita: Macron potrebbe scoprirsi presidente senza maggioranza nell’Assemblea nazionale. Il leader di Gauche Insoumise, Jean-Luc Mélenchon, punta a essere il primo ministro di una difficile coabitazione, mentre Le Pen vuole finalmente tradurre in seggi i suoi suffragi.
Con il loro voto, i francesi hanno dunque orientato il destino della Francia, dell’Europa e della pace nel conflitto tra Russia e Ucraina
Il destino della Francia, era ovvio: il presidente eletto governerà il Paese fino al 2027, gestirà la ripresa dopo l’uscita dalla pandemia e la lotta al riscaldamento globale – tema qui reso meno spinoso dal nucleare che riduce l’import energetico a base fossile -.
Cinque anni or sono, il ‘fattore Macron’ accelerò l’erosione del consenso delle due maggiori forze tradizionali della politica francese, la destra repubblicana e i socialisti. Adesso, il presidente Macron ha usurato la componente di novità e non ha pienamente corrisposto ad alcune delle speranze suscitate, scontrandosi con la sollevazione populista dei ‘gilets jaunes’ e, a sinistra, sulla riforma delle pensioni: eredita da se stesso un Paese più diviso.
Il destino dell’Europa, era del pari ovvio. Il processo d’integrazione, già azzoppato dall’euro-scetticimo dei Paesi del Gruppo di Visegrad e, volta a volta, di Austria, Slovenia, Croazia, della stessa Italia, sarebbe stato definitivamente compromesso se Macron fosse stato battuto.
Senza Parigi, che ne è geograficamente e politicamente il centro, non c’è l’Unione: il no della Francia fu determinante nel 1954 per affossare la Comunità europea di difesa, negli Anni Sessanta per costringere l’allora Comunità all’inazione ‘della sedia vuota’ – non si poteva prendere nessuna decisione perché la Francia non partecipava e ci voleva l’unanimità -, nel 2005 per vanificare il progetto di Costituzione europea.
Una presidenza Le Pen sarebbe stata dirompente: avrebbe ringalluzzito polacchi e ungheresi, ridato vigore agli euroscettici italiani – attualmente mimetizzati dentro il caravanserraglio europeista della maggioranza Draghi –, rifatto del Reno una frontiera e riportato indietro all’Europa delle patrie.
Per il destino della pace, è meno ovvio, anzi è solo una speranza. Ma è un fatto che Macron, perché si sente l’erede della ‘grandeur’ della Francia, perché esercita la presidenza di turno del Consiglio dei Ministri dell’Ue, perché avverte la responsabilità dei suoi ruoli, è stato il leader europeo che ha con più costanza mantenuto il dialogo sia con Putin che con il presidente ucraino Volodymyr Zelensky e ha cercato di innescare un processo negoziale, almeno fin quando, all’inizio di aprile, non è stato risucchiato dalla campagna elettorale, che rischiava di mettersi male.
E Macron è pure stato il leader europeo che, con maggiore chiarezza, ha saputo prendere le distanze dalle derapate lessicali – e non solo – del presidente Usa Joe Biden, quando disse che Putin non poteva più restare al potere o quando, più recentemente, ha definito un genocidio il conflitto. Rieletto e liberato dalle pastoie della campagna, Macron può ora riprendere a cercare di tessere la tela d’un’intesa che fermi il conflitto, in parallelo con il cancelliere tedesco Olaf Scholz. E non sarebbe male se Mario Draghi desse loro una mano, invece di fare la spalla di riserva di Biden – quella titolare è Boris Johnson -.