Esteri
Guerre: Medio Oriente forse un punto di svolta, in Ucraina stallo, tensioni a Taiwan
Di Giampiero Gramaglia
Nella crisi in Medio Oriente, la cui macchia di sangue e di orrore s’allarga da oltre un anno, siamo, forse, a un punto di svolta: gli Stati Uniti potrebbero bloccare il trasferimento di armi a Israele, se, nel giro di un mese, la situazione umanitaria nella Striscia di Gaza non migliora. L’avvertimento è ufficiale: una lettera firmata dal segretario di Stato Antony Blinken e dal segretario alla Difesa Lloyd Austin, dopo che le Nazioni Unite hanno denunciato il drammatico deterioramento dell’invio degli aiuti – viveri, acqua, medicinali, carburante – alla popolazione palestinese. Gli aiuti si sono più che dimezzati, mentre la popolazione è rimasta inalterata: da Gaza non si esce; al massimo, si muore – oltre 42 mila vittime, soprattutto civili, donne e bambini, il 2% degli abitanti. La risposta alle lettera di Blinken e Austin è stata quasi immediata: dopo due settimane di stop totale, convogli di aiuti con 145 camion sono entrati dai valichi nella Striscia; resta da vedere quanto durerà.
Dal 7 ottobre 2023, l’Occidente, sconvolto dagli attacchi terroristici condotti da Hamas e altre sigle palestinesi – 1200 le vittime israeliane, oltre 250 gli ostaggi catturati, un centinaio dei quali tuttora detenuti –, sposta sempre in avanti la linea rossa della sua tolleranza verso Israele: prima, sollecita una reazione proporzionata alla violenza subita; poi, chiede il rispetto delle vite dei civili; quindi, domanda di non invadere la Striscia e successivamente il Libano. Linee rosse tutte violate, senza conseguenza alcuna, perché gli Stati Uniti e l’Unione europea restano paralizzati dai sensi di colpa del passato verso Israele, nonostante il governo del premier Benjamin Netanyahu persegua solo l’annientamento del nemico, respinga l’idea dei due Stati, Israele e la Palestina, che vivano in pace e in sicurezza l’uno accanto all’altro, e non abbia in mente, o almeno non proponga, nessun futuro assetto politico dell’area.
Il governo Netanyahu viola il diritto internazionale, compie crimini di guerra, ignora le risoluzioni dell’Onu e attacca i militari dell’Onu schierati come forza di interposizione sul suo cammino verso il Libano (e che neppure provano a ostacolarlo): l’Unifil, che sta alla frontiera tra Libano e Israele, ma in territorio libanese, è divenuta un bersaglio dell’esercito israeliano. Sono 10 mila caschi blu, imbelli e inutili, ma ora sotto tiro; oltre mille gli italiani – il contingente più numeroso.
Israele vuole che se ne vadano: la loro presenza disturba le sue operazioni nel Sud del Libano contro quel che resta della milizia sciita filo-iraniana degli Hezbollah, «decapitata» dall’uccisione del suo leader Hassan Nasrallah il 27 settembre, decimata dalle stragi dei teledrin e dei walkie-talkie prima e dai bombardamenti e dai raid aerei e terrestri ora.
Le Nazioni Unite rispondono che non prendono ordini da Israele; i Paesi coinvolti, fra cui l’Italia, fanno la voce grossa. Ma, intanto, Israele va avanti, colpisce le postazioni dell’Onu, fa feriti. Fin quando?, fin dove?
Tutto ciò avviene in un contesto internazionale di tensione e di allarme: in Ucraina, il fronte dell’invasione russa è in stallo; a Taiwan, le manovre militari cinesi e quelle congiunte Usa / filippine più a Sud creano ansia e incertezza. Il Mondo tiene il fiato sospeso: un’apnea che deve durare almeno fino alle elezioni presidenziali negli Stati Uniti il 5 novembre, sempre che un errore, o una provocazione, dall’una o dall’altra parte, in uno degli scenari di conflitto aperti, non faccia precipitare la situazione.
Medio Oriente: l’incognita della risposta israeliana all’attacco iraniano del 1° ottobre
Le cronache mediorientali sono uno stillicidio di orrori: ogni mattina, ogni giorno, decine di vittime a Gaza; più o meno altrettante in Libano, fino a Beirut e oltre. Presi di mira scuole e ospedali, edifici civili, sempre con la giustificazione che ospitano – o fanno da scudo – a centri di comando, basi militari, depositi di armamenti. Ci sono i soprusi dei coloni nei Territori; e ci sono anche, sporadiche, ma talora letali, risposte palestinesi, azioni terroristiche, lancio di razzi verso Israele sia da Gaza che dal Libano.
Come per l’Ucraina, l’assuefazione al carnaio toglie impatto alle notizie e alle immagini e fornisce, a chi esercita violenza, una sorta di paravento di indifferenza.
Un primo risultato dell’irrigidimento statunitense potrebbe essere – va verificato – l’impegno preso dal premier Netanyahu con il presidente Usa Joe Biden a colpire solo installazioni militari, quando Israele compirà la sua ritorsione con l’Iran per l’attacco, massiccio – oltre 180 missili –, ma a vuoto, della notte tra il 30 settembre e il 1° ottobre, e a non prendere di mira installazioni nucleari e neppure strutture energetiche, così da ridurre il rischio di scatenare un allargamento del conflitto.
A preparare la risposta israeliana è stato un massiccio cyber-attacco denunciato dall’Iran e che avrebbe colpito anche gli impianti nucleari. «La quantità di incursioni informatiche pesanti, che hanno interessato tutti i rami del governo iraniano, così come l’industria nucleare, sono senza precedenti ed enormi» – ha annunciato il National Virtual Space Center di Teheran –. «È stata sottratta una grande quantità di informazioni sensibili».
L’ex presidente Donald Trump, candidato repubblicano alla Casa Bianca, sulla cui vittoria Netanyahu punta per avere carta bianca nel prossimo futuro, afferma che «Bibi non sta ad ascoltare Biden»: la telefonata di 30’ fra il premier e il presidente sarebbe stata un esercizio diplomatico d’opportunismo istituzionale.
Gli Stati Uniti, del resto, continuano a camminare sull’asse di equilibrio tra timore di allargamento del conflitto e orrore per quanto avviene, da una parte, e impegno a garantire la sicurezza di Israele, dall’altra. Così, mentre minacciano di sospendere fra un mese le forniture militari, intanto mandano in Israele un nuovo sistema anti-missile e un centinaio di militari per insegnare ad azionarlo, così da parare nuovi eventuali attacchi missilistici dell’Iran e/o di altri attori regionali, come gli Huthi dello Yemen. Il sistema Terminal High Altitude Area Defense, o THAAD, rafforza le capacità di difesa israeliane, ma colloca anche soldati statunitensi nel teatro di un potenziale conflitto regionale.
Neppure l’Iran resta diplomaticamente passivo. Il presidente iraniano Masoud Pezeshkian incontra, ad Ashkabad, in Turkmenistan, il presidente russo Vladimir Putin: con i suoi ‘doppi pesi’, dall’Ucraina al Medio Oriente e all’Estremo Oriente, l’Occidente favorisce il crearsi di alleanze e cooperazioni ostili e insidiose.
Il protrarsi e l’allargarsi del conflitto peggiora anche la situazione degli ebrei che vivono altrove che in Israele. Secondo la Commissione europea, fra i ‘danni collaterali’ della risposta israeliana ai raid del 7 ottobre, c’è il fatto che «la situazione degli ebrei è drammaticamente peggiorata». In Francia, dove c’è la più grande comunità ebraica d’Europa, nel 2023 c’è stata una media di quattro episodi d’antisemitismo al giorno; ed è in aumento anche l’odio online.
E l’estensione del conflitto al Libano è un dramma per i cristiani di quel Paese, che vedono crollare, forse definitivamente, il modello, o meglio il progetto, di uno Stato multiconfessionale, dove vivere con musulmani sciiti e sunniti. Nello scontro fra integralismi dell’Islam ed ebrei, con centinaia di migliaia di persone costrette a lasciare le proprie case e a cercare riparo dal conflitto altrove, i cristiani paiono rassegnati a ritrovarsi in una sorta di ghetto.
Sulle News dell’Istituto Affari Internazionali, Riccardo Alcaro evidenzia «la tragedia dietro l’apparente trionfo di Israele: “L’uccisione di Nasrallah rappresenta certamente un colpo durissimo per Hezbollah, ma non è una vittoria duratura per Israele. Tutt’altro: la maggioranza dei libanesi sta vedendo con i propri occhi che Israele non distingue fra miliziani, civili e caschi blu. L’odio e il desiderio di vendetta crescono di giorno in giorno e in tutto il mondo arabo”. Una nuova Intifada, ancor più vasta e sanguinosa delle precedenti, potrebbe essere alle porte».
Documenti di Hamas, sequestrati a Gaza dall’esercito israeliano e di cui il Washington Post ha preso visione, indicano che l’attacco terroristico del 7 ottobre veniva pianificato da anni ed era persino più criminalmente ambizioso: prevedeva l’abbattimento di grattacieli a Tel Aviv, in stile 11 settembre 2001, l’utilizzo di treni e navi e il coinvolgimento diretto e operativo di Hezbollah e di altre milizie filo-iraniane per un assalto coordinato contro Israele da nord, sud ed est.
Ucraina: bocce ferme, il piano di pace di Zelensky è velleitario
Saltato il vertice di Ramstein fra gli alleati dell’Ucraina, a causa degli uragani che hanno trattenuto Biden negli Stati Uniti, il presidente ucraino Volodymyr Zelensky è stato in alcune capitali europee, fra cui Roma, dove, oltre alla premier Giorgia Meloni, ha visto Papa Francesco, e, oggi e domani, partecipa al vertice europeo a Bruxelles. Zelensky ottiene ovunque conferme del sostegno a Kiev, ma torna sempre a casa senza quello che più gli preme: l’ok a usare le armi occidentali per colpire il territorio russo.
Nel giro delle capitali e a Bruxelles, Zelensky ha presentato il suo piano per la vittoria, che non è, fin dal titolo, un piano di pace, anche se viene presentato come tale.
Le cronache dall’Ucraina scandiscono il consueto stillicidio di attacchi notturni, aerei, con droni e con missili, e di combattimenti nel Donbass. Ma la linea del fronte resta sostanzialmente ferma, anche se l’inerzia sul terreno è favorevole alla Russia, anche perché l’Ucraina fatica ad avvicendare le truppe al fronte per carenza di reclute. Trump dice senza mezzi termini che le difese ucraine sono state “demolite”, lasciando presagire che, se dovesse divenire presidente, la sorte del conflitto sarebbe segnata.
Da Ashkabad, dove partecipa al forum internazionale sulla “Interrelazione tra tempi e civiltà: base della pace e dello sviluppo” e dove incontra Pezeshkian, Putin teorizza: «Le relazioni internazionali sono entrate in un periodo di cambiamenti fondamentali e la formazione di un nuovo ordine mondiale che rifletta la diversità del pianeta è un processo irreversibile». Per la Russia, le relazioni con l’Iran sono una “priorità”; per l’Iran, le relazioni con la Russia sono “strategiche e sincere”.
Taiwan: l’intreccio delle manovre fa rialzare la tensione
Come se il Mondo non avesse già abbastanza problemi, le manovre militari cinesi intorno a Taiwan riaccendono i riflettori sull’isola, anche se l’esplosione di un conflitto ora appare improbabile. Pure gli Usa sono attivi nel Mar Cinese meridionale, con manovre congiunte con le forze filippine.
Le maxi-esercitazioni militari del 14 ottobre denominate Joint Sword 2024B dovevano costituire «un severo avvertimento» per i leader di Taipei contro «atti separatisti delle forze indipendentiste». In sole 13 ore di attività, l’Esercito popolare di liberazione ha simulato un blocco attorno a Taiwan, schierando una flotta di 34 navi tra Marina e Guardia costiera, il gruppo d’attacco della portaerei Liaoning e soprattutto 153 aerei, di cui 111 entrati nello spazio aereo taiwanese, il numero più alto mai registrato in un solo giorno.
Il giorno dopo, fonti di Pechino hanno escluso che la Cina rinunci all’uso della forza con Taiwan: «Siamo pronti a impegnarci nella prospettiva di una riunificazione pacifica con la massima sincerità – ha detto Chen Binhua, portavoce dell’Ufficio per gli Affari di Taiwan del governo di Pechino –… Ma non ci impegneremo mai a rinunciare all’uso della forza». La Cina considera l’isola una parte «inalienabile» e «sacra» del proprio territorio, da riunificare in ogni modo.