Esteri
Ucraina: punto, un’escalation asimmetrica, gli incubi dell’acqua e del nucleare
Di Giampiero Gramaglia
L’escalation della guerra in Ucraina s’intensifica e si diversifica. Ma non è (ancora?) l’escalation, sempre minacciata e mai realizzata, della controffensiva di Kiev. È un’escalation fatta di azioni asimmetriche e talora imprevedibili, che alzano il livello di rischio per le popolazioni civili e che hanno paternità incerte; nessuno le rivendica ed entrambe le parti ne scaricano la responsabilità sull’altra.
Martedì mattina, una grossa diga sul Dnipro nell’Ucraina meridionale, a Nova Khakovna, a nord-est di Kherson, e la centrale idroelettrica ad essa collegata sono state sabotate, innescando un’evacuazione di massa e creando il timore, alimentato dalle fonti ucraine, di gravi devastazioni. Impressionanti alcune immagini fornite da emittenti locali. L’ordine di evacuazione riguarda decine di migliaia di persone (una decina di villaggi sulla riva destra del fiume e una parte di Kherson), ma si ignora quanti lo stiano davvero rispettando: il Ministero dell’Interno ordina di prendere con sé documenti e animali domestici, di spegnere gli elettrodomestici e di lasciare le case.
Media occidentali qualificati hanno constatato il danno subito dalla diga, ma non sanno dire chi l’abbia fatto. Il New York Times scrive: “La diga è sotto controllo russo e il suo invaso fornisce acqua portabile, per l’agricoltura e per il raffreddamento di un impianto nucleare lì vicino”. L’impianto sorge sul fiume Dnipro, che è una linea del fronte da quando gli ucraini hanno ricacciato i russi sulla riva sinistra e il cui nome rievoca una linea del fronte nella seconda guerra mondiale, fra nazisti e comunisti, in un’area in cui combatterono e caddero soldati italiani, molti dei quali vi sono tuttora sepolti.
Il rimpallo delle responsabilità e lo scontro all’Onu
L’intelligence ucraina sostiene che il sabotaggio è stato operato delle forze russe, che sono descritte “in preda al panico” nell’imminenza della controffensiva ucraina; e parla di “un atto di ecocidio”, cioè di deliberata distruzione dell’ambiente naturale. Mosca nega ogni responsabilità e fa notare che le acque che tracimano dalla diga inondano territori occupati da sue truppe e minacciano la Crimea, che è sua dal 2014.
Il test del ‘cui prodest’ non assolve né Kiev né Mosca. È vero che le acque della diga inondano territori in mano ai russi, ma è pure vero che i campi allagati possono ostacolare i movimenti nell’area, facendo impantanare carri armati e mezzi pesanti, e rallentare una controffensiva.
Mesi fa, i russi avevano segnalato alle Nazioni Unite il rischio costituito dalla diga, senza ottenere reazioni. Ma in guerra – si sa – chi grida al lupo per primo non si sottrae al sospetto d’avere poi agito per primo. E nell’individuare le responsabilità, si possono fare errori, come testimonia la vicenda del gasdotto NotrdStream sabotato nel settembre scorso nel Mar Baltico. Dubbi e sospetti s’appuntarono sulla Russia, ma le indagini delle intelligence occidentali hanno poi indotto a puntare il dito contro l’Ucraina. Per la Cia, Kiev addestrò per mesi all’operazione una squadra di 6 elementi delle sue forze speciali.
Martedì sera, il Consiglio di Sicurezza dell’Onu, convocato d’urgenza, è stato teatro di uno scontro tra Russia e Ucraina, che si sono reciprocamente accusate di terrorismo, mentre le Nazioni Unite chiarivano che quanto avvenuto è, comunque, l’ennesima tragica conseguenza dell’invasione russa e che “la gravità dell’episodio sarà pienamente comprensibile solo nei prossimi giorni”. Se gli Usa “inclinano ad attribuire a Mosca la responsabilità”, la Cina chiede a entrambe le parti “di rispettare le leggi internazionali”, dice che “la protezione dei civili è un principio importante” e fa un appello alla moderazione: “Continueremo a stare dalla parte della pace, promuovendo il dialogo per arrivare a una soluzione della crisi”.
La vicenda della diga si interseca con quella della centrale nucleare di Zaporizhzhia, caduta in mano ai russi all’inizio dell’invasione, ma intorno alla quale scaramucce, combattimenti, bombardamenti sono all’ordine del giorno, sempre con un rimpallo di accuse sulle responsabilità. I tecnici dell’Aiea, l’Agenzia dell’Onu per l’Energia atomica, da mesi installati dentro l’impianto, cercano di mantenere la situazione sotto controllo e i responsabili assicurano che “non c’è rischio a breve termine d’esplosione o di fuga di materiale radioattivo”.
La tattica delle marcite, la politica delle cannoniere e la diplomazia in panne
Pare quasi d’essere tornati indietro nel tempo, alle guerre del Risorgimento e alle marcite allagate per impacciare il nemico. Un ritorno indietro nel tempo c’è anche nel Pacifico, dove le tensioni intorno a Taiwan ripropongono la politica delle cannoniere tra Usa e Cina. Washington denuncia che una nave cinese nello stretto di Taiwan ha fatto “una manovra pericolosa”, ‘tagliando la strada’ a un incrociatore statunitense che, a migliaia di miglia nautiche dalle sue acque, ha dovuto ‘frenare’ per evitare una collisione, mentre probabilmente giudicherebbero intollerabile che una nave cinese facesse ‘vedere la bandiera’ a poche miglia dalla California. Discorso ‘asimmetrico’ analogo è quello per cui i kosovari della Serbia possono secedere dalla Serbia, ma i serbi del Kosovo non possono secedere dal Kosovo.
Lo spettro della Cina condiziona le relazioni tra Usa e Ue, che sono quasi allineate sull’Ucraina, ma che – scrive Politico – non hanno visioni coincidenti sull’atteggiamento da tenere verso Pechino: più duri gli americani, più morbidi gli europei. La percezione, tratta da parole del segretario alla Difesa Usa Lloyd Austin che Washington utilizzi la guerra in Ucraina per “mettere sull’avviso” la Cina su Taiwan non favorisce la coesione transatlantica.
Mentre i militari sul terreno danno l’impressione di giocare reciprocamente al gatto col topo, Foreign Affairs, la rivista del Council on Foreign relations, torna a parlare del conflitto “che nessuno può vincere” e che richiede, quindi, una soluzione negoziale. Ma la diplomazia pare ‘tirare i remi in barca’, a parte la missione di buona volontà (per ora interlocutoria) del cardinale Zuppi, presidente della Cei e inviato di Papa Francesco a Kiev.
Parlando a Helsinki, il segretario di Stato Usa Antony Blinken definisce l’invasione dell’Ucraina “un fallimento strategico” della Russia e mette in guardia contro un cessate-il-fuoco, che “congela la situazione sul campo” e consente a Mosca di consolidare il controllo dei territori occupati. E’ quasi una pietra tombale sugli abbozzi di mediazione indonesiano e brasiliano, e anche cinese, che da una tregua partono.
La visita a Kiev di Matteo Maria Zuppi non aveva “come scopo immediato la mediazione”, precisa il segretario di Stato vaticano Pietro Parolin, perché l’Ucraina non ha ora interesse a sedere al tavolo delle trattative. Obiettivo principale di Zuppi, per la Santa Sede era “ascoltare in modo approfondito le autorità ucraine sulle possibili vie per raggiungere una giusta pace e allentare le tensioni” e “creare un clima” di dialogo. Per il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, la visita del cardinale è “un’altra opportunità per il Vaticano di vedere da vicino la realtà della guerra di aggressione russa e di avere informazioni dettagliate sulla formula di pace ucraina in 10 punti”.
Più guerra che pace, nell’attesa della controffensiva
L’Ucraina è molto più concentrata sulla guerra, nell’attesa della controffensiva, che sulla ricerca della pace. Negli ultimi giorni, ha intensificato i tiri d’artiglieria e gli attacchi sul terreno, oltre che le incursioni attribuite a formazioni di sedicenti patrioti russi ostili al presidente Vladimir Putin – gruppi armati che spesso sfoggiano simboli e usano slogan che inneggiano al nazismo -.
C’è chi vi legge il segno che la controffensiva è cominciata, ma l’intelligence statunitense, che monitora via satellite i movimenti sul terreno, è cauta in merito: gli ucraini, infatti, potrebbero testare le difese russe, che sono state rafforzate negli ultimi mesi, mentre il fronte era in stallo e l’azione si concentrava ossessivamente su Bakhmut (dove ora Kiev sostiene di avere riguadagnato parte del terreno perso). Per il generale Mark Milley, capo di Stato Maggiore Usa, l’Ucraina “è molto ben preparata” per la sua controffensiva, ma “è troppo presto per prevederne il risultato”.
Esperti militari ritengono che le penetrazioni in profondità di droni ucraini sul territorio russo, così come le incursioni nell’area di Belgorod, sono segnali di vulnerabilità delle difese di Mosca, sia aeree che sul terreno. Su questa considerazione, s’innescano ulteriori polemiche tra i mercenari del Gruppo Wagner e gli apparati militari russi.
I russi, dal canto loro, sostengono d’avere respinto gli attacchi ucraini in territorio russo, specie nell’area di Belgorod e in due delle province ucraine da loro annesse, Donetsk e Zaporizhizhia; d’avere ‘neutralizzato’ 250 militari nemici e distrutto 16 tank; e d’avere contrattaccato. Gli ucraini bollano tutte queste notizie come disinformazione.
In un’ultima intervista al Wall Street Journal, il presidente Zelensky ribadisce di credere al successo della controffensiva, che – ammette apertamente – costerà un gran numero di vite umane. anche perché non può contare su tutti gli aiuti militari occidentali che si aspettava. Controffensiva a parte, c’è da alzare l’asticella in vista del vertice della Nato a luglio a Vilnius, dove si parlerà dell’ingresso dell’Ucraina nella Nato. La direzione pare tracciata, col sostegno unanime al popolo aggredito, ma su modalità e tempi restano molti dubbi. E, del resto, l’Alleanza non ha ancora perfezionato l’adesione della Svezia, ostaggio delle riserve della Turchia.
Nell’Unione europea, Politico individua il formarsi di un fronte ‘putiniano’ dentro i confini di quello che fu l’impero austro-ungarico: l’Ungheria del premier Viktor Orban è una ‘quinta colonna’ russa; in Slovacchia, potrebbe tornare al potere un leader pro-russo, Robert Fico, che intende interrompere il sostegno militare all’Ucraina; in Austria, il Partito della Libertà di Herbert Kickl, estrema destra, è in testa ai sondaggi in vista delle elezioni politiche del 2024 e vuole fare del Paese una ‘fortezza anti-immigrazione’.
Il trio Orban-Fico-Kikcl darebbe a Putin una leva per compromettere le sanzioni dell’Ue alla Russia e l’appoggio militare all’Ucraina: “Sarebbe in disastro”, commentano a Politico fonti qualificate della Commissione europea. Ma le vittorie di Kickl e di Fico non sono scontate: in Austria, l’appoggio al Partito della Libertà s’è già mostrato volatile in passato; e in Slovacchia, nel 2018, Fico dovette lasciare il potere sotto la spinta delle proteste popolari.
Foto credit: Global Look Press/Keystone Press Agency