Esteri

Russia al voto: la vittoria di Putin, scontata, e le guerre in Ucraina e Medio Oriente

14
Marzo 2024
Di Giampiero Gramaglia

Vladimir Putin, 72 anni, s’appresta a essere rieletto presidente fino al 2030: guida la Russia senza pause da 24 anni –dal 2008 al 2012, fu premier d’un presidente suo fantoccio, Dmitry Medvedev- e la governerà fin quando avrà l’età che ha oggi Donald Trump. Ma nessuno a Mosca si fa rovelli sugli anni del leader, anche perché Putin non perde occasione di mostrare la sua integrità fisica.

Le elezioni presidenziali russe, che si svolgono da venerdì a domenica in questo enorme Paese scandito da nove fusi orari, sono uno dei grandi appuntamenti elettorali 2024, insieme a quelle indiane, europee, americane, ma sono di gran lunga le meno incerte, quanto al risultato.

Putin vincerà al primo turno – istituzionalmente è previsto un ballottaggio, se nessun candidato ottiene il 50% dei voti espressi -. Gli interrogativi riguardano l’affluenza alle urne e la percentuale dei consensi: si tratta di vedere se e quanto la guerra in Ucraina, che per i russi continua a essere l’operazione militare speciale, incida sulla popolarità del presidente. Centinaia di migliaia di caduti – 300 mila nelle ultime stime dell’intelligence Usa, le perdite russe più pesanti dalla Seconda Guerra Mondiale – e l’impatto economico, minore del previsto, possono avere lasciato un segno. C’è anche da capire se la morte in un carcere siberiano del principale oppositore di Putin, Alexiei Navalny, e l’esclusione dalle schede del candidato del suo partito lasceranno un qualche strascico misurabile.

L’appello a recarsi alle urne lanciato dalla vedova di Navalny, Yulia, ha suscitato qualche sorpresa: non si tratta certo di legittimare la rielezione del responsabile della persecuzione di suo marito, ma di organizzare una forma di protesta difficile da reprimere, “il mezzogiorno contro Putin”. L’invito è di recarsi in massa ai seggi alle 12 di domenica e di “votare qualsiasi candidato tranne Putin” o, ancora meglio, di “annullare la scheda elettorale e scrivere a grandi lettere ‘Navalny'”, per fare capire al capo “che c’è tanta gente” che non lo appoggia affatto.

Nell’ipotesi di un risultato insoddisfacente, però, il Cremlino ha già la scusa pronta: sarà tutta colpa della propaganda occidentale, che si ingerisce nelle elezioni russe (un po’ rendere pan per focaccia alle accuse occidentali di ingerenze russe nei processi elettorali delle nostre democrazie).

Nell’immediato, il voto russo avrà riflessi limitati sulle guerre in Ucraina e nel Medio Oriente. Putin, e il premier israeliano Benjamin Netanyahu, restano su posizioni non concilianti, quasi nell’attesa d’un cambio della guardia alla Casa Bianca tra Joe Biden e Donald Trump. Il presidente non riesce più a garantire all’Ucraina gli aiuti militari necessari e non trova ascolto in Israele. Trump continua a dire che farà finire la guerra in un giorno – ci sono solo due modi: o la Russia si ritira o Washington cessa di sostenere Kiev -. Sempre Trump avalla l’offensiva israeliana a Gaza, mentre Biden contesta l’eccesso di violenza contro i civili. E l’inizio del Ramadan senza una tregua lascia solo presagire ulteriori drammi.

Russia al voto: Ucraina, fronte il stallo, Kiev a corto d’armi
La linea del fronte è sostanzialmente ferma, ma si susseguono i bombardamenti notturni incrociati con droni e missili; e l’Ucraina intensifica le sue azioni in territorio russo, anche con le incursioni dei sedicenti “partigiani anti-Putin”: punture di spillo nell’imminenza del voto, che, però, infondono nei russi una percezione di vulnerabilità.

L’ambasciatore Francesco Bascone afferma che il dibattito sul conflitto in Ucraina ruota attualmente non intorno all’urgenza di un negoziato, ma intorno all’ipotesi di coinvolgimento dei Paesi Nato evocata dal presidente francese Emmanuel Macron. Creano pure discussioni e reazioni contrastanti le parole sulla bandiera bianca di Papa Francesco e i richiami al nucleare da parte di Putin – che dice in merito le stesse cose che direbbe qualsiasi presidente degli Stati Uniti -.

Bascone si chiede: “Siamo già in guerra con la Russia?, come sostiene Putin; o dobbiamo assolutamente  evitare di scivolarci?, come dice Scholz; o una nostra limitata partecipazione è inevitabile?, come fa capire Macron. Il dibattito è strettamente connesso al dilemma fra fornire armi e munizioni all’Ucraina ‘as long as it takes / as much as we can’, o lasciare che la Russia vinca così da preservare la (nostra) pace”.

L’intelligence Usa nota che, se “Putin non è stato in grado di realizzare il piano iniziale di occupare tutta l’Ucraina”, l’esercito russo è riuscito a fermare le azioni controffensive ucraine l’estate scorsa “e ora la situazione comincia a giocare a favore della Russia”.

In particolare, l’industria della difesa russa sta aumentando la produzione di armi a lungo raggio, d’artiglieria e di altro materiale bellico: Mosca migliora la capacità di tenuta delle sue truppe. “Probabilmente, Putin ritiene che la Russia abbia sventato i tentativi dell’Ucraina di riconquistare porzioni di territorio importanti, che i suoi calcoli per la vittoria in questa guerra siano giusti e che l’assistenza occidentale, in particolare americana, all’Ucraina sia ormai limitata, anche tenuto conto della guerra tra Israele e Hamas”, che distrae l’attenzione dell’Occidente e relega il fronte ucraino “all’altra guerra”.

Nel Congresso di Washington, i repubblicani non sbloccano gli aiuti a Kiev. E così il Pentagono decide di cedere all’Ucraina materiale bellico per 300 milioni di dollari, a costo di intaccare ulteriormente il proprio arsenale: è una piccola cosa, rispetto ai 60 miliardi di dollari considerati necessari dall’Amministrazione Biden, ma è anche la prima fornitura dall’autunno scorso. Il WP calcola che le forze armate Us abbiano ora bisogno di 10 miliardi di dollari, per ristabilire il livello del loro arsenale.

Russia al voto: Medio Oriente, l’Occidente in panne
Il Ramadan, il mese del digiuno, è iniziato senza tregua tra Israele e Hamas nella Striscia di Gaza e senza il ritorno a casa degli ostaggi – almeno un centinaio –, nelle mani dei terroristi dal 7 ottobre: la trattativa prosegue, per ora senza esito, tra sussulti di speranza e delusioni. Ma l’intesa, a giudizio dei negoziatori, resta possibile.

Domenica sera, alla cerimonia degli Oscar, proprio in coincidenza con l’inizio del Ramadan, donne e uomini di cultura e spettacolo hanno espresso sostegno con le loro spille rosse al cessate-il-fuoco. Ma gli auspici di Biden per una tregua di sei settimane e le richieste di Hamas di un cessate-il-fuoco permanente si sono finora infrante sulla rigidità israeliana.

E’ però vero che l’intensità dei combattimenti nella Striscia pare diminuita e che il flusso degli aiuti sembra aumentare, in attesa – ma ci vorrà tempo – dell’attracco offshore allestito da militari Usa. Ogni giorno, però, le cronache citano drammi ed efferatezze. E i rischi di allargamento del conflitto al confine tra Israele e Libano o nel Mar Rosso, dove Nave Duilio abbatte altri due droni Huthi, non sono stati affatto sventati.

Anche in situazioni normale – e questa non lo è -, il mese del digiuno porta tradizionalmente con sé tensioni e scontri fra ebrei e musulmani. Le frizioni fra Israele e Stati Uniti, specie fra Netanyahu e Biden, s’acuiscono: il premier sfida il presidente sull’ultima ‘linea rossa’ tracciatagli, un’operazione di terra su vasta scala a Rafah, nel Sud della Striscia, al confine con l’Egitto, dove un milione e mezzo di sfollati nella loro propria terra s’accalcano disperati, senza cibo né medicinali.

Per Netanyahu, quella è la sua linea rossa per prevenire ulteriori attacchi terroristici, nonostante Antonio Guterres, segretario generale delle Nazioni Unite, avverta che un’azione di terra a Rafah sarebbe “un massacro”. L’unica cosa positiva è che l’offensiva nel Sud della Striscia, da settimane minacciata, non sarebbe imminente, secondo l’intelligence statunitense.

Incerta sarebbe, invece, sempre per l’intelligence, la sopravvivenza politica del premier israeliano, che ha però dimostrato di sapere finora ‘dribblare’ critiche e trappole: la mancata prevenzione dell’attacco terroristico del 7 ottobre; un conflitto con oltre 30 mila vittime; l’incapacità di riportare tutti gli ostaggi a casa; le pressioni occidentali per una maggiore auto-moderazione e le prospettive di una spaventosa carestia fra i civili palestinesi.

Russia al voto: le presidenziali, modalità e candidati
La presidenziali 2024 russe sono le prime in cui si applica la riforma costituzionale del 2020, che, azzerando i mandati fin qui ottenuti, consente a Putin di candidarsi una quinta volta (e gli lascia poure la porta aperta a un sesto mandato, nel 2030).

E sono anche le prime dopo l’invasione dell’Ucraina e l’annessione tramite referendum – non validi, però, la comunità internazionale – delle regioni occupate di Cherson, di Zaporizhzhia e delle due ex repubbliche auto-proclamate del Donetsk e di Lugansk. La Crimea, annessa nel 2014 – analogamente in spregio al diritto internazionale -, ha già partecipato alle elezioni del 2018.

A parte Putin, che si presenta ufficialmente come indipendente, ma è sostenuto dal Fronte popolare pan-russo e da Russia Unita, i principali candidati dei maggiori partiti sono sono Leonid Sluckij, liberal-democratico, Nikolaj Charitonov, comunista, e Vladislav Davankov, di Nuova Gente. Esponenti pacifisti ed oppositori radicali hanno provato a candidarsi, ma sono stati per lo più cassati dalla Commissione elettorale centrale, con varie motivazioni. Navalny stesso avrebbe voluto essere in lista, ma non c’era riuscito, come Boris Nadezhdin e  Yekaterina Duntsova.

Russia al voto: le presidenziali, il potere mette le mani avanti
La Russia di Putin mette le mani avanti: Mosca teme un basso livello di partecipazione che darebbe la stura in Occidente a commenti per sminuirne la portata e, di fatto, la legittimità d’un suo mandato agli occhi dei russi e del mondo. I servizi di intelligence esterni (Svr) russi puntano il dito a priori contro gli Stati Uniti, che starebbero preparando “attacchi informatici al sistema di voto” e si fanno scudo di quelle democrazie in cui l’astensionismo non inficia i rapporti di forza fra i partiti e tanto meno la legittimità dei governi. E’ il caso dell’Italia, dove il partito di Giorgia Meloni ha vinto “solo grazie all’affluenza alle urne bassissima”.

“Con l’intervento dei principali specialisti informatici americani – afferma il servizio stampa dell’Svr, ripreso dalla Tass -, si prevedono attacchi informatici al sistema di voto elettronico, che renderanno impossibile il conteggio delle schede di una parte significativa degli elettori russi”. Secondo l’intelligence russa, inoltre, su istigazione di Washington e attraverso le risorse Internet dell’opposizione si diffondono appelli ai cittadini russi affinché ignorino le elezioni.

L’Svr riconosce, quindi, che la riduzione dell’affluenza alle urne darebbe all’Occidente un motivo per mettere in discussione i risultati elettorali, ma sottolinea che la bassa affluenza è un fenomeno che tocca anche l’Occidente; e qui cita, appunto, il caso dell’alta astensione alle politiche italiane 2022, quando si recò alle urne meno del 64% degli elettori.

Tolti di mezzo tutti i possibili rivali del presidente, tra arresti e presunti inadempimenti burocratici, il Cremlino cerca ora il plebiscito della partecipazione al voto. Il giornale di opposizione Novaya Gazeta Europa denuncia pressioni sui dipendenti pubblici perché votino online e accusa il potere d’affidarsi “al voto telematico per colmare il divario tra realtà e illusione” e controllare i risultati fino a “riscrivere completamente i dati nei singoli seggi”.

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