Esteri
Libano, sette mesi senza un Presidente
Di Elisa Gestri
Mentre l’Italia si interroga sul destino dell’eredità politica di Silvio Berlusconi, in Libano si attende che il Parlamento fissi una nuova data per le elezioni del Presidente della Repubblica.
Il Parlamento Libanese si è riunito per l’ultima volta mercoledì scorso 14 giugno, proprio quando l’Italia dava l’estremo saluto a Berlusconi, allo scopo di eleggere il Presidente della Repubblica, mancando per la dodicesima volta il bersaglio. La situazione socioeconomica del Paese si fa di ora in ora più critica e mai come adesso un Presidente è necessario, dato che la vacanza dura da più di sette mesi, esattamente dal 31 ottobre 2022, quando è arrivato a scadenza naturale il mandato di sei anni di Michel Aoun.
Non troppo diversamente da quel che è successo in Italia all’ultima elezione presidenziale, ma con tempi estremamente più dilatati, in Libano i candidati sembrano apparire e scomparire come in un gioco di prestigio; una delle ipotesi, in caso di mancato accordo su un nome, è proprio quella di richiamare il quasi nonagenario Aoun.
In Libano eleggere il Presidente è sempre stato un affare spinoso; vero è che secondo Costituzione la scelta si restringe – il Presidente della Repubblica deve essere cristiano maronita – e che chi ricopre cariche istituzionali fa un mestiere pericoloso – non si contano i Presidenti, i Primi Ministri, i ministri assassinati mentre erano in carica durante la breve storia della Repubblica – ma il Paese necessita al più presto di un Presidente per uscire dallo stallo istituzionale in cui versa dalle ultime elezioni del 15 maggio 2022. Per formare un governo pienamente legittimo occorre un mandato presidenziale, dunque il Paese è andato in cortocircuito: niente Presidente, niente governo, e viceversa. Quello attuale è infatti un governo “caretaker”, facente funzione, in attesa che ne sia formato uno dotato di pieni poteri.
In novembre le consultazioni erano partite bene: sembrava quasi fatta con Michel Moawad, figlio del compianto Presidente della Repubblica René, assassinato nel 1989 a 18 giorni dalla sua elezione. Poi però qualcosa dev’essere andato storto e Moawad è stato sacrificato, nel suo caso solo politicamente, uscendo dai giochi.
Al momento i parlamentari sono polarizzati in due blocchi contrapposti: chi tiene per Jihad Azour, sostenuto dalle Forze Libanesi, dal Free Patriotic Movement di Gebran Bassil, genero di Aoun, dai drusi del Progressive Socialist Party e dalla maggior parte dei parlamentari indipendenti, vera novità politica delle ultime elezioni; e chi per Suleiman Franjieh, favorito del potente duo sciita Hezbollah/Amal.
Proprio i parlamentari di quest’ultimo blocco hanno lasciato l’aula mercoledì dopo un primo giro di votazioni, in cui Azour ha ricevuto 59 voti e Franjieh 51, impedendo di fatto la prosecuzione dei lavori. “Ci fosse stato un secondo round di votazioni, a quest’ora avremmo un presidente” ha twittato a commento della mattinata Samir Geagea, leader di Forze Libanesi. Se in prima votazione per essere eletto il candidato deve infatti ottenere 86 voti, nella seconda gliene bastano soli 65.
Ma no, i membri di Amal e Hezbollah sono usciti dal Parlamento sorridenti e soddisfatti, dichiarando che la loro mossa è “perfettamente legale“. Lo speaker della Camera e leader di Amal Nabih Berri ha aggiornato la seduta a data da destinarsi, mentre il Libano resta senza una prospettiva immediata di colmare la vacanza istituzionale.
Entrando nel merito politico dei due candidati, il cinquantasettenne economista Azour è stato ministro delle Finanze tra il 2005 e il 2008 nel gabinetto Siniora ed è consulente per il Medio Oriente del Fondo monetario internazionale. L’area sciita lo accusa di essere sostenuto dall’arcinemico Israele e di portare stampato in fronte il bollino americano. Il coetaneo Franjieh, a sua volta brevemente ministro nel 1996 e nel 2005, è il leader del partito Marada e nutre un forte legame con il presidente siriano Bashar al-Assad. Dopo che suo padre, Tony Franjieh, fu assassinato nel 1978 da una pattuglia di milizie cristiane rivali, il nonno ed ex presidente libanese suo omonimo lo affidò alle cure della famiglia al Assad. Franjieh nipote è tuttora fermo sostenitore del governo siriano e, dettaglio appetitoso, sostiene il diritto/privilegio di Hezbollah di possedere le armi.
Curioso è che la battaglia presidenziale si svolga sul terreno non nuovo per il Paese del sostegno o meno al governo Siriano targato famiglia Assad, mentre governo e cittadini di ogni partito, etnia e religione rimanderebbero volentieri a casa loro i due milioni di rifugiati siriani che da dodici anni vivono in Libano. In verità il governo si è già attrezzato in questa direzione: negli ultimi mesi meno di un centinaio di siriani senza documenti sono stati deportati in Siria “per loro volontà”, fanno sapere fonti ufficiali. La campagna antisiriana sembra però più un mezzo per tranquillizzare la popolazione libanese stremata dalla crisi che una massiccia operazione di forza.
Molto probabilmente il nome su cui ricadrà la scelta dei parlamentari influenzerà anche le decisioni da prendere in merito alla “Syrian issue”. Frattanto il Paese patisce un’inflazione oltre i livelli di guardia, tanto che la moneta locale è ormai sostituita dal dollaro americano nelle piccole come nelle grandi transazioni commerciali. Le grandi Potenze, non solo occidentali, attendono con interesse l’evoluzione della vicenda, e pochi tra politici, religiosi, capi di Stato e di partito rinunciano a dire la loro in merito, mentre la stampa internazionale segue a ruota.
Si attende dunque da un momento all’altro che Nabih Berri indica una nuova tornata di votazioni, nella speranza che la prossima volta non si crei di nuovo un blocco pregiudiziale che impedisca ai lavori di andare avanti. Inshallah, come dicono da queste parti col tipico fatalismo levantino (come, se e quando Dio vuole).