Una svolta storica quella di mercoledì quando la COP 28 di Dubai ha raggiunto un’intesa senza precedenti sulla riduzione dell’utilizzo dei combustibili fossili. Dopo oltre trecento ore di negoziati e trattative, la dichiarazione finale della ventottesima edizione della Conferenza sul cambiamento climatico è stata letta in meno di un minuto dal presidente di turno Al Jaber, provocando un lungo applauso dall’Assemblea plenaria. Per la prima volta in 28 anni nel documento finale di una COP si è giunti a un impegno esplicito e formale per allontanarsi dai combustibili fossili – come carbone, gas e petrolio – il cui utilizzo come fonti di energia causa l’emissione di gas serra, tra i principali responsabili del riscaldamento globale. Sono trentaquattro le parole contenute nel testo finale del vertice e ognuna di queste ha un suo peso specifico. Come molti fanno notare, infatti, nel testo originale non si parla di “phase out”, cioè di «eliminazione», seppur graduale, dai combustibili fossili, come richiesto da oltre cento nazioni, ma di “transitioning away” ovvero di una «transizione» o «allontanamento» dalle fonti di energia inquinanti.
La formulazione è forse meno netta di quella sperata, ma non c’è dubbio che si tratti di una vittoria a tutti gli effetti, frutto di un compromesso fra stati con obiettivi, priorità e valori molti diversi fra loro. Oltretutto, ad ospitare e a guidare la Cop28 sono stati proprio gli Emirati Arabi Uniti, una tra le cosiddette petrol-monarchie, per cui il tema dei combustibili fossili è naturalmente più che centrale. Ad essere consapevole del successo raggiunto, e a rivendicarlo con una certa fierezza, è anche lo stesso Al Jaber che ha commentato: «Dobbiamo essere orgogliosi di questo risultato storico: abbiamo avvitato il mondo nella giusta direzione». Quello che sembra certo, in effetti, è che queste trentaquattro parole, sebbene non vincolanti, hanno un immenso valore politico e il potenziale di cambiare il corso della civiltà umana, rappresentando un capitale politico e sociale senza precedenti, a disposizione di chiunque saprà valorizzarlo.
Gli appuntamenti internazionali sono continuati anche con il Consiglio europeo a Bruxelles che giovedì ha concluso i lavori della giornata in modo alquanto inaspettato annunciando l’avvio dei negoziati di adesione con l’Ucraina e la Repubblica di Moldavia e la concessione alla Georgia dello status di Paese candidato. Sulla decisione è arrivato anche il commento di Giorgia Meloni che ha rivendicato il ruolo svolto dall’Italia nel raggiungere l’intesa e nel superare il veto posto dal Primo Ministro ungherese Orban. “Si tratta di un risultato di valore rilevante per l’Unione Europea e per l’Italia, giunto al termine di un negoziato complesso in cui la nostra Nazione ha giocato un ruolo di primo piano nel sostenere attivamente sia i Paesi del Trio orientale sia la Bosnia-Erzegovina e i Paesi dei Balcani occidentali” ha scritto infatti Palazzo Chigi. Nel frattempo, è ripreso il confronto sull’altro grande punto all’ordine del giorno, non meno complesso: la revisione del quadro finanziario dell’Unione dove l’Italia spinge per aumentare i fondi destinati all’immigrazione e all’industria. Un obiettivo che non sarà certo facile da raggiungere ma sul quale la Meloni non vuole cedere.
Difficoltà anche sul piano interno, dove il Governo Meloni ha dovuto rivedere la propria posizione sulla Legge di Bilancio. Se inizialmente il presidente del Consiglio aveva imposto ai partiti che sostengono la sua maggioranza di non presentare emendamenti alla manovra per una sua approvazione rapida, è stato poi deciso che, oltre agli emendamenti presentati nel frattempo dal governo, anche i relatori avrebbero potuto presentarne alcuni. Una piccola vittoria negoziale per Lega e FI che però non sembra far cessare le tensioni interne nella maggioranza sull’approvazione della misura. A destare scompiglio, infatti, è la discussione in merito all’eventuale proroga al Superbonus: chiesta con determinazione e a più voci da FI e supportata anche dal senatore di FdI Guido Liris, relatore al provvedimento, l’ipotesi è stata respinta con fermezza dal ministro dell’Economia Giorgetti. Il tutto mentre il fattore “tempo” incalza su una legge che necessita di essere approvata da entrambi i rami del parlamento entro il 31 dicembre.
Il Senato aveva infatti programmato di votare la misura tra il 18 e il 19 dicembre, per poi inviarla alla Camera. Tuttavia, lo stallo provocato dagli emendamenti ha generato un allungamento dei tempi: l’Aula del Senato dovrebbe a questo punto votare il provvedimento il 22 dicembre. Di conseguenza, la Camera sarà costretta a discutere e approvare il provvedimento tra il 29 e il 30 dicembre, sperando di non tardare oltre ed entrare così nel cosiddetto “esercizio provvisorio”, il regime eccezionale per cui il governo non è autorizzato ad adottare le variazioni di bilancio previste nella Manovra, ma deve limitarsi a gestire le operazioni di ordinaria amministrazione.