Esteri
La diplomazia occidentale incerta sull’invio di armi in Ucraina
Di Giampiero Gramaglia
11 mesi di guerra in Ucraina “su vasta scala”, e senza una prospettiva di pace. “È il 335° giorno” dall’inizio dell’invasione, conta il presidente ucraino Volodymyr Zelensky: “Lo passeremo come tutti gli altri 334°”, combattendo al fronte e sotto le bombe nelle città, “unendo tutte le nostre forze per la vittoria dell’Ucraina”. Il dato che il ministro degli Esteri Dmytro Kuleba sciorina con orgoglio alla Cnn è che l’86% delle scuole di Kiev si sono dotate di un rifugio anti-aereo: roba da brividi nella schiena, perché scuola dovrebbe essere sinonimo di biblioteca, laboratorio, palestra, non bunker.
Alla resilienza ucraina si contrappone l’oltranzismo russo, militare e verbale. “Il mondo si avvicina al rischio della Terza Guerra Mondiale, a fronte dei preparativi di aggressione contro la Russia”, dice il falco per antonomasia del Cremlino, l’ex presidente e premier Dmytri Medvedev, oggi vice presidente del Consiglio di Sicurezza. “L’operazione speciale che si sta compiendo” in Ucraina “è stata … una risposta alla preparazione dell’aggressione da parte degli Stati Uniti e dei loro satelliti”.
Il linguaggio dell’Occidente è fermo nei toni. Persino aspro: Jens Stoltenberg, segretario generale della Nato, nota che “dobbiamo dare armi più potenti all’Ucraina” e “dobbiamo farlo in fretta”, dopo un incontro con il neo-ministro della Difesa della riluttante Germania Boris Pistorius. Addirittura catastrofico: Josep Borrell, il capo della diplomazia europea, che ha una retorica sempre bellicosa, avverte che “dobbiamo prepararci a un clima sempre più competitivo nello spazio”, che “diventerà una sorta di campo di battaglia, un posto dove accadranno scontri, un dominio chiave strategico, una questione chiave in materia di difesa e sicurezza”. Per Borrell, l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia “è stata un campanello d’allarme”.
Più misurato il ministro degli Esteri italiano Antonio Tajani: “Noi non siamo in guerra. Stiamo solo aiutando l’Ucraina a non essere invasa. L’obiettivo finale deve essere quello di raggiungere la pace, sostenendo tutte le iniziative favorevoli al dialogo tra le due parti a cominciare dall’azione che può svolgere per esempio l’Aiea, perché la centrale nucleare di Zaporizhzhia diventi un’area neutrale e non sia un luogo di combattimento”. Tajani aggiunge: “Dobbiamo favorire i corridoi alimentari … Dobbiamo incoraggiare l’azione della Turchia che è riuscita a mettere seduti attorno al tavolo ucraini e russi per l’esportazione dei cereali. Non è facile, ma vogliamo si arrivi a una pace giusta, che significa libertà e indipendenza per l’Ucraina”.
Nel gioco dell’oca crudele del conflitto, le iniziative di pace diplomatiche sono tornate alla casella di partenza: il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ridimensiona le ambizioni a cessate-il-fuoco locali e temporanei; Papa Francesco offre preghiere, ma per mediare al Vaticano servono agganci che, per ora, non paiono esserci, né a Mosca né a Kiev.
Le notizie che arrivano dal campo sono ormai ripetitive e ci si bada poco: raid, bombe e missili sulle città ucraine, soprattutto sulle infrastrutture energetiche; combattimenti al fronte, circoscritti, in questo scorcio di nuovo anno, al Nord-Est del Donetsk, tra Soledar e Bakhmut.
L’attenzione dell’Occidente è concentrata su se e come rafforzare le capacità militari ucraine, difensive (sistemi anti-aerei e anti-missile) e non solo. I carri armati, di cui si discute, possono consentire alle forze ucraine di riconquistare i territori occupati dai russi, che tengono il Sud-Est, dal Donbass alla Crimea, annessa con un referendum nel 2014.
La riunione dei ministri della Difesa dei Paesi amici dell’Ucraina, a Ramstein, la scorsa settimana, doveva definire le prossime mosse occidentali. Invece, ha evidenziato le esitazioni della Germania, cui Kiev chiede i Leopard, carri che, secondo alcuni analisti, possono fare la differenza sul campo di battaglia – non tutti, però, concordano -, mentre quelli britannici e francesi, già promessi all’Ucraina, non sarebbero decisivi.
Berlino teme che i Leopard segnino un’escalation nel conflitto, specie un ulteriore coinvolgimento dell’Occidente e della Nato. I partiti della coalizione al governo in Germania non sono concordi: è possibile che Berlino autorizzi Varsavia a dare a Kiev i suoi Leopard, ma non è ancora deciso. E c’è un problema di numeri: la Germania dispone di circa 350 tanks; altre centinaia – non tutti operativi – sono negli arsenali di altri 13 Paesi Nato europei; ma i pezzi da mandare in Ucraina sarebbero solo una trentina.
Zelensky e i suoi collaboratori alzano la posta: “Abbiamo bisogno di varie centinaia di carri armati per vincere, non di decine”. Se gli Usa sono finora fermi sulla linea degli aiuti economici e militari, gli europei, che sono più vicini al conflitto e ne risentono di più le conseguenze, sono più prudenti. L’Italia sta per dare via libera a un sesto pacchetto di aiuti militari per l’Ucraina.
Il segretario di Stato Usa Antony Blinken confida agli alleati che il modo più rapido per fare finire la guerra “è dare all’Ucraina una grossa mano sul campo di battaglia”, come fanno gli Stati Uniti. Ma poi aggiunge che il conflitto potrebbe andare ancora avanti per tutto l’anno. E la prospettiva che finisca s’interseca con quella che s’allarghi.