Esteri

La crisi in Kazakistan svela le fragilità della Russia

14
Gennaio 2022
Di Alberto de Sanctis

In Kazakistan infuria la repressione contro il tentativo di rivoluzione che ha scosso l’ex repubblica sovietica. A inizio anno le proteste di piazza innescate dall’aumento del prezzo del carburante sono tracimate in un’aperta rivolta contro il governo del presidente Kasym-Žomart Tokaev e hanno coinvolto numerose aree dell’immenso territorio kazako. L’apice degli scontri è stato toccato nella città di Almaty, il vero cuore pulsante dell’economia del paese centroasiatico.

Dopo l’iniziale successo dei manifestanti che ha portato al taglio del prezzo del carburante e alla destituzione del governo, la situazione è degenerata rapidamente, con scontri aperti per le strade e un’opera di repressione sempre più brutale condotta dalle forze di sicurezza locali. Nel mentre le notizie sull’esercito di Nur-Sultan (così è stata ribattezzata nel 2019 l’ex capitale Astana) in odore di defezione, i dubbi sulle presunte regie esterne delle proteste e le consultazioni con il presidente Tokaev portavano al vero punto di svolta della crisi.

Il riferimento è per l’intervento di Mosca e dei suoi soci della Csto (oltre a Russia e Kazakistan, l’alleanza conta infatti Bielorussia, Armenia, Kirghizistan e Tagikistan) in risposta alla formale richiesta di aiuto avanzata dal governo kazako per tenere sotto controllo la situazione e preservare il regime.

Così il Cremlino ha potuto rilanciare il proprio ruolo di garante della stabilità e della sicurezza nella regione, dopo che negli ultimi anni gli ex alleati sovietici avevano tentato di ampliare il proprio margine di manovra sottraendosi in parte all’influenza russa. Prova ne sia, ad esempio, la presidenza dell’Ocse assunta proprio dal Kazakistan nel 2010, come pure la stipula di un partenariato strategico rafforzato con gli Stati Uniti nel 2018.

Per la Russia il rilievo strategico del Kazakistan è semplicemente assoluto. Oltre a condividere con la Federazione ben settemila chilometri di porosissina frontiera in piena steppa, il paese centroasiatico è ricco di idrocarburi e di altre risorse strategiche, tra cui l’uranio. Qui le autorità russe amministrano inoltre il cosmodromo di Bajkonur e il poligono missilistico di Sary-Šagan – due infrastrutture fondamentali per le aspirazioni di Mosca al tempo della nuova corsa allo Spazio – mentre un quinto della popolazione locale è composto da russi etnici.

Il messaggio è chiaro. L’intervento militare, effettuato peraltro senza grande dispendio di mezzi e tenendosi in disparte, è servito a ufficializzare che il Cremlino è pronto a intervenire se le minoranze russe all’estero sono minacciate anche solo tangenzialmente e se il regime deputato (indirettamente) a proteggerle rischia di essere rovesciato.

Non meno importante era il rischio di veder entrare in fibrillazione il quadrante centro-asiatico dell’ex impero moscovita, crocevia inaggirabile dei traffici terrestri fra Europa, Turchia, Russia e Cina. Con riflessi immediati sulla stabilità di un altro pezzo rilevante delle proprie frontiere mentre quelle occidentali sono già messe sotto pressione dagli Stati Uniti e dai paesi antirussi della Nato in Europa.

Dalla Bielorussia all’Ucraina, dalla Georgia alle instabilità endemiche fra Caucaso e Caspio, sui confini della Federazione Russa preme infatti una catena di tensioni e conflitti di difficile composizione che rappresenta il vero rompicapo geopolitico con cui deve fare i conti Mosca nel XXI secolo.

L’incendio kazako avrebbe solo peggiorato il quadro, forse in maniera irreversibile, di certo complicando ulteriormente la posizione strategica di un’ex superpotenza da tempo in aperto declino.

Con buona pace per le Cassandre della minaccia russa all’Occidente.

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