Esteri

Kissinger: un uomo di potere la cui visione ha segnato, non sempre in positivo, il XX Secolo

30
Novembre 2023
Di Giampiero Gramaglia

28 febbraio 1972, Henry Kissinger seduto in poltrona alla sinistra di Richard Nixon, che dialoga, con l’ausilio di un interprete, con Mao Tse-tung, che ha, alla sua destra, Ciu En-lai. 10 dicembre 1973, Henry Kissinger e Le Duc Tho, negoziatore vietnamita, ricevono a Oslo il Nobel per la Pace per la fine della guerra in Vietnam. Due immagini iconiche del XX Secolo e della vita e delle opere di Henry Kissinger, scomparso, all’età di cento anni – compiuti lo scorso maggio -, nella sua casa nel Connecticut.

Ma, quando penso a Kissinger, quelle due immagini vengono dopo due altre abbinate: lui che, sorridente, dà la mano a un Augusto Pinochet in alta unforme; e un fotogramma di Missing, Scomparso, un film del 1982 diretto da Costa-Gavras, con Jack Lemmon e Sissy Spacek, che denuncia il ruolo degli Usa – del Dipartimento di Stato e della Cia – nel colpo di Stato in Cile dell’11 settembre 1973: i giardini dell’ambasciata degli Stati Uniti vuoti e in perfetto ordine, perché nessun seguace del presidente assassinato Salvador Allende e/o avversario del generale Pinochet e dei suoi accoliti vi veniva accolto, mentre i giardini dell’Ambasciata d’Italia pullulavano di gente che cercava un rifugio e un documento per espatriare.

Nella sua lunga carriera e nella sua lunghissima vita, Kissinger è stato l’uomo di molte stagioni, non tutte luminose e positive. Fra le buone, che oggi viene più facile ricordare: il dialogo con la Cina partendo dalla diplomazia del ping-pong, che però conteneva i germi dell’ambiguità su Taiwan oggi palese; il ritiro dal Vietnam, avvenuto con modalità che, quasi cinquant’anni dopo, avrebbero avuto un’eco nel catastrofico ritiro dall’Afghanistan; il processo di distensione in Europa, culminato nell’Atto di Helsinki del 1975.

Ma è stato anche l’uomo delle mene Usa in America latina, da Pinochet in Cile alle dittature militari in Argentina e Brasile e altrove; o dei bombardamenti e dell’invasione della Cambogia, prima d’arrendersi all’evidenza della sconfitta in Vietnam. All’Europa, riservò lo scherno di uno dei suoi più celebri aforismi: purtroppo ancora valido: “Non c’è un numero di telefono per chiamarla” – come dire che l’Europa, in sé, non esiste, ma ci sono i singoli Stati, molto più funzionali al ‘divide et impera’ da lui praticato. Con l’Italia, non fu morbido almeno a due riprese: con Guido Carli, quando pensò di convertire in oro parte delle riserve in dollari di BankItalia; e con Aldo Moro, che iniziava a riflettere al compromesso storico. Ma qualche affinità, almeno con un politico italiano, Giulio Andreotti, l’aveva: il suo motto era che “il potere è il massimo afrodisiaco”, che fa il paio con l’andreottiano “il potere logora chi non ce l’ha”. E c’era l’amicizia intima con Gianni Agnelli.

Come scrive sull’ANSA Alessandra Baldini, una vita da giornalista negli Usa, l’eredità di Kissinger, “machiavellico statista, continuerà ad essere discussa tra chi lo considera un genio diplomatico e chi un genio del male. Astuto manipolatore e influente fino agli ultimi giorni, l’ebreo in fuga dall’Europa a 15 anni, alla vigilia della Seconda guerra mondiale, vedeva il mondo come un puzzle gigantesco, in cui ogni pezzo giocava un ruolo importante e distinto verso un unico fine: gli Usa come superpotenza internazionale, anche a prezzo d’interventi di realpolitik sullo scacchiere mondiale giudicati da molti brutali ed illegittimi”. Il Washington Post ricorda che i suoi critici lo definivano “amorale e senza principi”.

Consigliere di tutti i presidenti da Nixon in poi – e fanno dieci -, guru venerato della politica estera planetaria, Kissinger s’era fatto sentire dopo l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia – un’analisi controcorrente, poi parzialmente corretta -, ma non è più intervenuto sulle ultime vicende in Medio Oriente, con la guerra tra Israele e Hamas, pur avendo vissuto in prima persona il conflitto del Kippur del 1973, da cui Israele uscì vincitore. Tra i suoi ultimi impegni pubblici, l’estate scorsa, l’incontro a Pechino con il presidente cinese Xi Jinping e un incontro a Washington con la premier Giorgia Meloni in visita negli Stati Uniti.

Per il politologo Robert Kaplan, Kissinger è stato il più grande statista bismarckiano del XX Secolo. In occasione del suo centesimo compleanno, il figlio David s’interrogava sul Washington Post sull’eccezionale vitalità fisica e mentale d’un uomo dalle abitudini non salutiste: l’elisir del padre, per David, era l’inesauribile curiosità per le sfide esistenziali del momento presente, dalla minaccia dell’atomica negli anni ’50 all’intelligenza artificiale su cui due anni fa scrisse il penultimo libro, ‘The age of AI and our human future’, a cui ha ancora fatto seguito, nell’aprile 2022, ‘Leadership: Six studies in world strategy’.

Da bambino, si diceva, era troppo timido per parlare in pubblico. Straniero nella nuova patria dopo la fuga dalla Germania nel 1938, Heinz divenne Henry e imparò a esprimersi in perfetto inglese conservando sempre l’accento tedesco. Si fece apprezzare a Harvard e a Washington e raggiunse, complice Nelson Rockefeller, il tetto del mondo al servizio di Richard Nixon e, dopo il Watergate, di Gerald Ford, come consigliere per la Sicurezza nazionale e poi segretario di Stato – ruoli che ricoprì anche contemporaneamente, cosa senza precedenti e mai più avvenuta -.

I presidenti Usa viventi gli rendono omaggio. La Cina lo ricorda come “un vecchio amico molto apprezzato”. Il presidente russo Vladimir Putin elogia “l’uomo di Stato saggio e lungimirante”, cui, forse, un po’ s’ispira. Il presidente francese Emanuel Macron vede in lui “un gigante della storia”, la cui eredità – per l’Unione europea – “continuerà” a essere avvertita. Il premier israeliano Benjamin Netanyahu, che forse avrebbe preferito avere lui come interlocutore che Obama o Biden, gli riconosce “un profondo impatto sulla scena globale”.

Kissinger concentrò nelle sue mani ogni negoziato che riteneva importante: fu un presidente ombra, anche se la Casa Bianca era una meta a lui proibita, perché non era nato cittadino statunitense. Uscì dall’Amministrazione con la sconfitta di Ford e l’elezione del democratico Jimmy Carter, ma restò impegnato a attento nella politica estera, in gruppi come la Trilaterale; e fondò il suo celebre studio di consulenza Kissinger Associates, i cui clienti erano governi di tutto il Mondo e da cui sono passati futuri ministri e sottosegretari. Un lascito d’influenza che gli sopravviverà.

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