Titola il New York Times all’indomani del viaggio di Draghi, Macron e Scholz a Kiev: “Europe offers Ukraine a hope, but not a vast arsenal”. Effettivamente quello che Zelensky si aspettava non è stato portato in dono dai tre principali leader europei. Le armi. L’Ucraina continua a dichiarare di averne bisogno ingente e immediato per potersi difendere dall’invasione russa. Come spesso ha fatto anche in passato, Zelensky ha impostato la sua dialettica sull’emotività. E anche la logistica del viaggio lo ha dimostrato. Ha voluto far toccare con mano ai tre ospiti il dramma e l’orrore della guerra, facendoli scortare a Irpin, una delle città più colpite dal conflitto. Il reportage di viaggio ha consegnato alla storia immagini che resteranno nell’iconografia contemporanea, come quella dei tre presidenti sconvolti di fronte all’auto dilaniata in cui era rimasta uccisa un’intera famiglia.
Ma, una volta seduti al tavolo, hanno scandito solo promesse. La promessa di un sostegno categorico all’ingresso dell’Ucraina nell’Unione europea. Quella dell’invio di aiuti militari ed economici. E quella di un impegno sul fronte Onu per organizzare lo sblocco dei porti ucraini in sicurezza. Per la fornitura di armamenti il migliore alleato di Kiev continua a essere il Presidente americano Joe Biden, che pur senza viaggio a Kiev, ha promesso un invio di armi senza precedenti. Joe Biden e l’Alleanza atlantica stanno dimostrando di puntare la stella cometa dell’Occidente in tutt’altra direzione: verso la “lunga guerra”, che forse restituirà all’Ucraina l’integrità territoriale e certamente fiaccherà la Russia.
La visita a Kiev, tuttavia, è stata utile a un allineamento definitivo delle tre principali potenze europee. Le distanze di posizione, soprattutto con la Francia di Macron, sono sembrate superate e adesso si parla con una voce unica. Ma in realtà per valutare la solidità di tale sodalizio bisognerà aspettare i prossimi vertici, a cui la missione a Kiev è stata senza dubbio funzionale. Parliamo della riunione a Bruxelles del Consiglio europeo della prossima settimana e del vertice Nato a Madrid a fine mese. Il Consiglio europeo dovrà decidere sullo status dell’Ucraina di candidato all’adesione Ue, dopo il via libera già incassato dalla Commissione europea. Ma non solo. Sarà cruciale per l’introduzione del price cap, il tetto al prezzo del gas, tanto agognato dall’asse Draghi-Cingolani, che potrebbe determinare una definitiva dissuasione ai continui rialzi del prezzo delle forniture di gas da parte della Russia. Con la sua denuncia da Kiev in conferenza stampa («C’è un uso politico del gas e del grano da parte della Russia») Draghi ha voluto lanciare un allarme per rafforzare l’appoggio della proposta italiana.
Il vertice Nato sarà di importanza strategica non solo perché vi parteciperà il Primo ministro giapponese Fumio Kishida, che interverrà per la ragionare su una prospettiva di sicurezza nell’indo-pacifico che coinvolga anche l’Europa. Ma anche per il futuro dell’Ucraina. Sebbene i funzionari ucraini non parlino più di adesione all’alleanza, sottolineano che l’Ucraina postbellica avrà bisogno di garanzie di sicurezza contro ulteriori aggressioni russe. Al momento, solo la Nato, o almeno i suoi maggiori membri, possono fornire un tale impegno. L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia è stata resa possibile dall’isolamento del Paese al di fuori dell’architettura politica e di sicurezza occidentale. È ormai chiaro che designare il Paese come “zona cuscinetto” o “ponte tra Occidente e Russia” non è sostenibile.
Draghi è tornato quindi a Roma, dove il dibattito interno è dominato dalle conseguenze della tornata elettorale per amministrative e referendum. I grandi sconfitti, il M5S di Conte e la Lega, sognano la crisi di governo, l’unica mossa, secondo molti analisti, che potrebbe aiutarli a recuperare un po’ di consensi. Ma l’importante test del voto in Senato alla riforma della giustizia ha dimostrato che gli equilibri ancora reggono. Con 173 sì, 37 no e 16 astenuti la riforma è passata, con un testo che, tra le varie misure, introduce in parte anche i principi di almeno tre dei quesiti referendari bocciati (valutazione dei magistrati, sistema di elezione dei membri del Csm e separazione delle carriere). Ma questo paradosso non ha impedito tuttavia a Lega e M5S di votare compatti con la maggioranza. L’appuntamento con la crisi di governo, almeno per il momento, sembra rinviato.