“Zan, Zendegi, Azagi”, “Donna, vita, libertà” è lo slogan che porta avanti la rivoluzione in Iran. Una protesta che ha smentito il pensiero di molti analisti una volta superato il mesiversario del dissenso iraniano. La causa scatenante è la notizia della morte di Masha Amini, ragazza 22enne arrestata perché accusata di portare il velo in modo scorretto. Dal 16 settembre le proteste raggiungono varie città dell’Iran in pochissimi giorni e così anche il braccio di ferro del regime si fa sempre più duro.
A dimostrazione dell’importanza storica della rivolta delle donne arriva la dichiarazione dell’ayatollah Ali Khamenei il quale, il 3 ottobre, incolpa i “nemici stranieri” per i disordini all’interno del paese. Il riferimento non rimane una semplice allusione, secondo il leader supremo dell’Iran sono Stati Uniti, Israele e gli iraniani all’estero a fomentare le proteste.
Dalla goccia che ha fatto traboccare il vaso alla rottura di una diga che travolge il paese con un’ondata interminabile di rabbia, scaturita sì dall’obbligo di indossare il velo ma che comprende la mancanza dei diritti delle donne in Iran. Una corrente violenta direttamente proporzionata all’inasprimento della repressione all’interno delle manifestazioni.
“Lotteremo, moriremo, ma ci riprenderemo il nostro Iran”. L’apertura del vaso di Pandora ha portato il regime ad utilizzare tutti i corpi armati a propria disposizione: i Nopo (acronimo per le Forze speciali della guardia provinciale), i Nakhsa (le Forze spontanee delle terre islamiche leali solo ad Ali Khamenei), gli Etelaati (i servizi segreti). Nonostante la paura per i cecchini che possono sparare sulla folla, nonostante i miliziani dei basij (corpo creato dopo la rivoluzione islamica), nonostante l’enorme spiegamento di forze le autorità non riescono a soffocare il movimento dei giovani iraniani.
Se il pretesto della rivolta nasce dalle donne in realtà il coinvolgimento è molto più ampio. Il regime di Khamenei si trova a dover sconfiggere una corrente composta essenzialmente da ragazzi tra i 18 e i 25 anni. Una generazione cresciuta con l’ideologia dell’Islam politico, i “figli della rivoluzione” dunque manifestano il fastidio di quelle bambine che dai 7 anni in poi sono obbligate a portare l’hijab a causa del tabù politico e sociale relativo ai capelli delle donne. La conseguenza? Il fastidio si è evoluto in una frustrazione collettiva di tutta la generazione. Insoddisfazione che getta le basi su un sistema della menzogna che riaccende la polemica sulla fonte del diritto all’interno di una repubblica islamica.
C’è chi pensa che la rivolta femminista, che parte con le donne ma che coinvolge tutto il paese, sia un confronto relativo al velo che è diventato un punto centrale del discorso giuridico. Ma questo ragionamento è strettamente collegato alla natura del governo, motivo per cui il regime potrebbe temere l’inizio di un cambiamento radicale dell’Iran. C’è invece chi crede, molto più semplicemente, che tutte le dittature temano la componente femminile della natura umana, motivo per cui siano sempre le donne le prime a ribellarsi.
“Le donne a volte esagerano: vero. Però è solo quando si esagera che gli altri ci ascoltano. Il voto non ce lo dettero, forse, perché esagerammo?” in molti trovano un fondo di verità nella dichiarazione rilasciata da Indira Gandhi in un’intervista. A un mese dai disordini in Iran si può pensare di poter intravedere l’alba di un cambiamento importante, qualcuno oserebbe storico, che tutto il mondo guarda con estrema attenzione. Ma, da questa rivolta, un elemento emerge più di altri: per queste donne la felicità si chiama libertà, non potere.