Esteri
Il vero rischio della vittoria di Trump: l’aumento dei dazi contro l’Europa
Di Tommaso Carboni
Tra i ricchi sostenitori di Trump, Elon Musk è quello più appariscente e rumoroso, ed è lui che il tycoon ha ringraziato – “è un supergenio” – dopo la vittoria schiacciante questa notte contro Kamala Harris.
Ma dietro le quinte ci sono uomini che probabilmente hanno un peso ancora maggiore, ed è anche attraverso di loro che ci si può fare un’idea di quale saranno le scelte di Trump quando a gennaio tornerà alla Casa Bianca.
Uno di questi uomini, ad esempio, è Howard Lutnick, amministratore delegato di Cantor Fitzgerald, una società di servizi finanziari, che è emerso come il più stretto alleato di Trump a Wall Street, oltre ad essere co-presidente del suo team di transizione.
Si è detto che tra i due candidati Trump è quello più di rottura, mentre Kamala Harris avrebbe seguito grossomodo la strada di Biden. La verità, però, è che anche i democratici avevano adottato una strategia economica piuttosto nazionalista, basata su sussidi e dazi. Ma Trump minaccia di essere una versione molto più spinta e pericolosa di questo approccio.
Quanto è radicale il suo programma? Ecco un assaggio del clima in cui sono immersi alcuni dei suoi consiglieri; a parlare è proprio Howard Lutnick: nel grande comizio della scorsa settimana al Madison Square Garden, ha detto che la vera età dell’oro del capitalismo americano è stata l’inizio del ‘900. “All’epoca non avevamo imposte sul reddito, solo dazi. E avevamo talmente tanti soldi che i migliori imprenditori d’America si riunivano per capire come spenderli”. Il fatto preoccupante è che anche Trump ha ripetuto la stessa cosa. “Potrei abolire le tasse sul reddito”, ha detto al podcaster Joe Rogan, “sostituendole con delle tariffe”. Quanto bisogna prendere sul serio queste dichiarazioni? La campagna elettorale è un conto, il governo un altro. Ovvio che non ci sarà una strategia così radicale, perché stravolgerebbe l’economia americana. Però sarebbe saggio prendere per buone alcune delle proposte annunciate da Trump (ormai svariate volte). In sintesi, l’ex presidente potrebbe fare questo: dazi tra il 10% e il 20% su tutti i partner commerciali (compresa l’Europa), con picchi fino al 60% per la Cina.
Una cosa è certa: se Trump applicasse davvero questa politica, per l’Europa sarebbe un grosso problema. Il rischio non è solo il calo di esportazioni verso gli Stati Uniti, ma l’arrivo di prodotti cinesi deviati (a causa dei dazi americani) e venduti a basso costo nel mercato europeo. Non solo auto elettriche, a cui Biden ha già imposto un dazio del 100%, ma altra tecnologia pulita come batterie, pannelli solari, turbine eoliche. Un’analisi dell’Istituto Economico Tedesco stima che un nuovo round di dazi potrebbe costare alla Germania 180 miliardi di euro in quattro anni, riducendo il Pil del 1,5%. In teoria la Commissione Europea ha predisposto dei meccanismi con cui reagire, come l’anti-coercion instrument, pensato per contrastare le pressioni economiche cinesi e adattabile per rispondere agli Usa. Già nel 2018 Trump aveva colpito acciaio e alluminio europei con tariffe rispettivamente del 25% e del 10%. L’Europa aveva a sua volta alzato dei dazi come ritorsione, senza però innescare una vera guerra commerciale.
Resta l’interrogativo se i dazi servono davvero a qualcosa. Chi è a favore dice che hanno portato la Cina al tavolo dei negoziati, da cui poi è scaturito nel 2020 un accordo commerciale. Firmando, Pechino si impegnava a rafforzare le protezioni sulla proprietà intellettuale e a comprare una certa quantità di prodotti americani. Ma lo ha fatto sul serio? Due anni dopo i numeri indicavano che non aveva acquistato praticamente nulla dei 200 miliardi di beni promessi.
Nel complesso, il bilancio resta ambivalente. È vero che i dazi hanno penalizzato l’export cinese, ma il deficit commerciale degli Usa è cresciuto lo stesso, mentre l’occupazione manifatturiera non è aumentata in modo significativo. Senza prodotti dalla Cina, gli americani hanno comprato di più da Vietnam e Messico.