Si è aperto oggi il Summit delle democrazie, l’incontro di due giorni organizzato online dal dipartimento di Stato degli Usa che riunisce 110 governi e che realizza una promessa elettorale del presidente Joe Biden. Nonostante un nome tanto altisonante, il vertice in sé non conta nulla.
Difficile (per non dire impossibile) realizzare alcunché di concreto o di tangibile in un summit condotto a distanza e con così tanti partecipanti. Ogni iniziativa troppo lasca è necessariamente priva di valore poiché non possono esistere interessi comuni a tanti paesi differenti.
Ce lo ricorda in maniera tremendamente dolorosa la storia dei vari vertici climatici di questi anni.
Premesso ciò, da uno sguardo all’elenco di invitati e assenti è comunque possibile cogliere il senso dell’iniziativa diplomatica.
Al principio l’idea dell’amministrazione Biden era di condurre attorno a sé le nazioni filo-americane di Europa occidentale e Sud-est asiatico in una lega delle democrazie in funzione anticinese.
Non essendo riusciti a convincere le seconde circa la necessità di uscire allo scoperto contro la Cina, gli Usa hanno scelto di ripiegare sul formato del summit allargato – dunque ancor meno influente di quanto si potesse immaginare inizialmente – per rilanciare la loro propaganda democratica. Un espediente sempre utile a compattare i satelliti sotto il credo universale americano.
Unico paese assente dell’Ue è l’Ungheria, ma non per ragioni ideologiche. L’esclusione di Budapest dipende dal fatto che la superpotenza è insofferente per l’eccessiva vicinanza del primo ministro Viktor Orbán a cinesi e soprattutto russi.
Lo conferma la presenza dei polacchi, che sono accomunati agli ungheresi dalle medesime falle istituzionali, ma che rappresentando il bastione più importante del contenimento americano contro la Russia in Europa orientale sono stati premiati con l’inclusione all’incontro.
Se il criterio fosse stato ideologico e non geopolitico sarebbe dovuta mancare anche la Polonia, che invece è presente.
Più della Russia, il vero obiettivo del summit era e resta il contenimento della Cina. Prova ne sia l’eccezionale presenza di Taiwan, segno del progressivo abbandono americano della politica della «Cina unica» in favore di un sempre meno ambiguo sostegno alla difesa (diplomatica e militare) di Taipei.
Biden concepì l’iniziativa al tempo della campagna elettorale, per smarcarsi dalla narrazione “difettosa” sulla Cina del suo predecessore che non usava metri ideologici. Rivolgendosi a europei e asiatici per esortarli a schierarsi contro i cinesi, il presidente Donald Trump ricorreva a un metro meramente utilitaristico denunciando mosse come l’esportazione di merci a basso costo da parte di Pechino, il furto di lavoro e la violazione delle regole internazionali.
Biden invece sceglie di utilizzare la classica narrazione americana, ponendo l’accento proprio su democrazia e diritti umani, per rivolgersi in primo luogo agli europei occidentali. Abitato da paesi tipicamente ideologici e post-storici, l’Ovest europeo è forse l’unico luogo sulla Terra in cui governi e abitanti sono sinceramente interessati alle questioni legate a diritti umani e democratici.
La superpotenza ne è perfettamente consapevole e per questo adopera il virtuale summit delle democrazie per persuaderli a schierarsi contro la Repubblica Popolare, esortando gli euroccidentali a partecipare al suo contenimento marittimo, commerciale, tecnologico e diplomatico.
Per il resto, come emerge dal caso ungherese di cui sopra, il vertice è un’altra occasione per dare pagelle a satelliti e alleati, segnalando l’opportunità di attuare necessari aggiustamenti di rotta oppure di adoperarsi per rientrare nelle grazie americane.
Emblematica l’esclusione della Turchia, che serve a mantenere in un’area morbida l’ostilità latente con Ankara. In questa fase la potenza anatolica non segue le indicazioni americane su diversi dossier ma è al contempo troppo importante per contenere Mosca fra Caucaso, Mediterraneo e Nord Africa da infliggerle un’altra forma di bocciatura che non sia l’esclusione soft dal virtuale summit delle democrazie.
Discorso simile per la mancanza del Vietnam, paese fondamentale per il contenimento di Pechino nel Mar Cinese Meridionale che in questa fase inclina naturalmente verso gli Usa e a cui viene chiesto di esporsi più apertamente contro i cinesi.
L’invito al Pakistan sorprende solo fino a un certo punto. Premesso che occorre una notevole dose di coraggio per ritenerlo un paese democratico, per gli Stati Uniti si tratta comunque di una potenza da recuperare in quanto satellite che non deve scarrellare oltremodo verso la Cina.
Nel momento in cui l’India è passata apertamente nel campo americano, il rivale Pakistan sta facendo l’opposto avvicinandosi alla Repubblica Popolare e per questo motivo Washington si adopera per recuperarlo alla sua causa.
Colpisce anche l’esclusione della Tunisia, indicata da certa letteratura ideologica come l’esempio virtuoso della possibile democratizzazione del Nord Africa e come culla delle primavere arabe grazie alla Rivoluzione dei gelsomini.
Sull’esclusione di Tunisi pesa il colpo di Stato estivo ordito da francesi e sauditi contro la sgradita influenza turca, che dal punto di vista americano non è stata ancora recisa a dovere.
Infine c’è il caso dell’Iraq, unico paese del Medio Oriente a partecipare al vertice assieme a Israele. Qui entriamo nel campo della tattica estrema: a Bagdad non esiste certo la democrazia, ma semmai solo il ricordo del fallimento totale della guerra Usa al terrorismo dei primi anni Duemila.
Eppure il paese mesopotamico è un attore troppo importante da recuperare e tenere legato a sé, per sottrarlo alla tradizionale influenza imperiale persiana che spinge verso ovest e il Levante. Di qui dunque l’invito a partecipare.
Per il resto, del pomposo Summit delle democrazie resterà poco e niente.
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