Esteri
Il colpo di Stato in Bolivia e un Sud America sempre instabile
Di Giuliana Mastri
In Bolivia il colpo di Stato è andato in fumo in sole tre ore. Tutto è partito da un gruppo dell’esercito, guidato Juan José Zuñiga, che ha tentato di sfondare con un racco armato la porta del Palazzo del governo, traendo di sorpresa i membri che si trovavano all’interno. I militari però non hanno seguito Zuniga e il nuovo comandante José Wilson Sánchez, nominato immediatamente dal presidente esecutivo bolivariano Luis Arce, ha ordinato la ritirata venendo prontamente obbedito. Nell’azione 12 persone sono rimaste ferite. Centinaia di sostenitori di Arce sono accorsi nella piazza fuori dal palazzo, sventolando bandiere boliviane, cantando l’inno nazionale e applaudendo.
Oltre a Zuniga ci sono responsabilità anche del capo della Marina Juan Arnez Salvador. Il governo ha assicurato che la situazione è tornata alla normalità e ha già iniziato a sostituire i vertici militari. Pare comunque che il gruppo di golpisti abbia agito autonomamente senza il sostegno di nessuno. La sommossa ha la sue radici nella difficilissima crisi economica di La Paz ma anche alla faida interna al partito di governo “Movimento verso il Socialismo“, tra l’attuale presidente e l’ex premier Evo Morales, primo presidente indigeno, molto popolare, ma che ha tentato di aggirare la Costituzione cercando un quarto mandato nel 2019. Pur vincendo è stato costretto a dimettersi in mezzo alle proteste per presunte frodi elettorali, ha lasciato il Paese ed è tornato dopo che Arce ha vinto nell’ottobre 2020.
Il caso della Bolivia mette una lente sulla situazione sudamericana certamente delicata. Dopo un secolo scorso abbastanza torbido, dal 2000 in poi quasi tutta la regione è caratterizzata da sistemi democratici, la stessa cosa non si può dire o comunque resta discutibile se si parla di Venezuela, Nicaragua e Cuba. Anche in altre nazioni latinoamericane, comunque, il modello parlamentare è spesso a repentaglio, come nel caso dell’Ecuador, dove a gennaio di quest’anno frange afferenti alle bande di narcotrafficanti hanno tentato un colpo di Stato. Gli assaltatori fecero irruzione in una trasmissione televisiva in diretta con pistole, fucili e granate. Al conduttore è stata messa nel taschino della dinamite. «State calmi, che qui saltiamo tutti in aria», ha detto lui agli agenti, chiedendo di non intervenire.
Due anni fa, invece, in Perù il premier Pedro Castillo è stato destituito e messo in galera, dopo aver tentato di sciogliere il Congresso. Dal 1986, tutti i presidenti che il popolo peruviano ha eletto sono finiti in carcere. Inoltre si ricordano i recenti disordini insurrezionali (gennaio 2023) nel parlamento brasiliano, durante il passaggio non pacifico tra Bolsonaro e Lula.
La democrazia messicana invece scricchiola, con il presidente Andrés Manuel López Obrador, detto AMLO, che ha preso di mira gli oppositori e conferito un potere immenso ed enormi quantità di denaro all’esercito messicano, che oggi combatte il crimine organizzato ma costruisce anche aeroporti, filiali bancarie e trasporti pubblici e gestisce dogane e porti. Il Venezuela dovrebbe andare al voto quest’anno ma si attende la decisione di Maduro, il quale fu delegittimato dall’Unione europea e degli Stati Uniti, quando si aprì una sorta di guerra civile senza spargimento di sangue per sostituire il presidente socialista con Juan Gauidò, che oggi ha perso sostegno politico. Ed è scarsa la serenità pure nella politica del Guatemala, dove alle elezioni presidenziali del 2023 è stato impedito di candidarsi ad alcuni rappresentanti dell’opposizione, l’annuncio dei risultati del primo turno è stato ritardato di diversi giorni e il vincitore del ballottaggio di agosto, Bernardo Arévalo, ha dovuto affrontare continui ostacoli e complotti volti a intralciare il suo insediamento previsto per il gennaio 2024. Lui stesso disse che le élite guatemalteche stavano preparando un colpo di Stato contro di lui.