Esteri
Guerre: MO, Rafah senza viveri, Netanyahu e i leader di Hamas ricercati
Di Giampiero Gramaglia
Una notizia che pare cattiva e lo è: martedì le Nazioni Unite hanno sospeso la distribuzione di cibo a Rafah, dopo essere rimasti senza scorte nel sud della Striscia di Gaza. Significa che gli aiuti non arrivano in quantità adeguate, là dove ancora resta oltre mezzo milione di persone, senza considerare i pericoli insiti nella loro distribuzione.
E una notizia che pare buona e non lo è: Israele ha risposto a molte delle preoccupazioni espresse dall’Amministrazione Biden circa un’operazione militare su larga scala a Rafah, hanno fatto sapere fonti Usa dopo colloqui a Gerusalemme nel fine settimana. Significa che le obiezioni all’attacco potrebbero attenuarsi e che l’azione potrebbe essere imminente.
Fonti di stampa non verificabili riferiscono che, da Rafah, nelle ultime settimane, se ne sarebbero andate quasi un milione di persone, dopo che la popolazione era salita a circa un milione e mezzo per il flusso di rifugiati dal Nord della Striscia.
I negoziati per una tregua sono finiti sotto traccia, dopo che, due settimane or sono, un’intesa pareva vicina. Della guerra tra Israele e Hamas non si intravvede la fine: il conflitto è giunto al giorno 225, dopo che, il 7 ottobre, incursioni terroristiche in territorio israeliano avevano fatto circa 1200 vittime e condotto alla cattura di oltre 250 ostaggi – di oltre 100, si spera ancora possano tornare a casa: oltre cento lo hanno già fatto, gli altri sono morti, spesso vittime di bombardamenti e combattimenti -.
La reazione israeliana all’attacco terroristico ha fatto circa 35.500 vittime palestinesi, soprattutto civili, specie donne e bambini. L’esercito israeliano stima che solo un terzo dei miliziani sono finora stati uccisi e che due terzi dei tunnel scavati sotto Gaza restano ancora intatti.
Guerre: MO, l’impatto della morte in un incidente del presidente iraniano
A infittire gli interrogativi sugli sviluppi della guerra, una tragedia aerea e un’iniziativa giudiziaria. Da una parte, la morte, nello schianto del loro elicottero, del presidente iraniano Ebrahim Raisi e del ministro degli Esteri Hossein Amir-Abdollhaian, oltre che di alcuni altri alti funzionari; dall’altra, la decisione della Corte penale internazionale dell’Aia di emettere mandati d’arresto nei confronti del premier israeliano Benjamin Netanyahu e del ministro della Difesa Yoav Gallant e di tre leader di Hamas, il capo Yehiva Sinwar, il capo politico Ismail Haniyeh e il comandante delle brigate Izzedine al-Qassam Mohammed Diab Ibrahim akl-Masri.
Le autorità iraniane attribuiscono a un guasto tecnico lo schianto dell’elicottero con a bordo Raisi e Amir-Abdollhaian, avvenuto domenica, in una zona montuosa dell’Azerbaigian orientale. Di colpo, l’Iran si trova privo di due figure chiave in un momento di straordinaria tensione nel Medio Oriente ed entra in una fase di fibrillazione elettorale. Le cerimonie funebri, svoltesi martedì e mercoledì, cercano di dare un’immagine di forza e compattezza; e il leader supremo, l’ayatollah Ali Khamenei, assicura che tutto continuerà a funzionare, sotto la guida del presidente ad interim, il vice di Raisi Mohammad Mokhber, mentre si preparano le elezioni già indette per il 28 giugno.
Ma molti interrogativi riguardano proprio la successione di Khamenei, che ha 85 anni e di cui Raisi era considerato l’erede più probabile. E il presidente deceduto lascia dietro di sé crisi economica e una moneta svalutata, un giro di vite controvero nell’applicazione delle regole islamiche e timori che i conflitti regionali con Israele e il Pakistan possano andare fuori controllo.
Guerre: MO, l’impatto della decisione della Corte penale internazionale
La decisione della Corte penale internazionale, annunciata lunedì, di perseguire i crimini di guerra e contro l’umanità compiuti il 7 ottobre e poi nella guerra nella Striscia di Gaza è l’ennesimo segnale della crescente insofferenza nei confronti dell’atteggiamento israeliano ed alimenta divisioni anche nel campo occidentale, tradizionalmente vicino a Israele.
“La notizia era appena uscita – scrive Ishaan Tharoor sul Washington Post – e i carri erano già stati messi in circolo”: l’immagine evoca la tattica delle carovane dei pionieri per proteggersi da attacchi di indiani e banditi e rende bene il chiudersi a riccio e compattarsi d’Israele di fronte alle critiche. Del resto, anche Hamas denuncia la mossa dell’Aia.
Il presidente Usa Joe Biden ritiene la decisione della Cpi “oltraggiosa”: mette sullo stesso piano un’organizzazione terroristica e uno dei più stretti alleati degli Stati Uniti. Ma non tutti la pensano così: se Gran Bretagna, Germania, Italia, fra gli altri, condividono il giudizio di Biden, Francia, Belgio, Spagna e altri appoggiano l’iniziativa della Corte, che rende difficile per Netanyahu e Gallant viaggiare nei 124 Paesi che ne riconoscono la giurisdizione – fra questi, non vi sono, però, Israele, gli Usa, la Cina, la Russia e l’Ucraina, solo per citarne alcuni -.
C’è pure chi, come Spagna, Irlanda e Norvegia, si spinge fino ad annunciare un riconoscimento dello Stato palestinese.
Il procuratore della Corte Karim Ahmad Khan, britannico, aveva già emesso, l’anno scorso, provvedimento analogo nei confronti del presidente russo Vladimir Putin per i crimini di guerra connessi all’invasione dell’Ucraina. E da allora Putin ha limitato le sue sortite a Paesi che non sono nella Cpi, per ridurre rischi e imbarazzi.
Nella sua analisi, Tharoor ricorda i successivi passaggi giudiziari, i cui tempi d’attuazione sono incerti – la Corte deve pronunciarsi sulla richiesta del procuratore -, ma osserva che la Cpi ha comunque fatto esplodere “una vera e propria bomba”: aveva già emesso mandati di cattura contro dittatori e signori della guerra, ma non aveva mai o quasi mai perseguito leader che godono dell’appoggio dell’Occidente.
Guerre: MO, gli sviluppi sul terreno
Sul terreno, la guerra procede con combattimenti e attacchi aerei letali. E la situazione resta molto tesa in CisGiordania e a Nord di Israele, al confine con il Libano. Gli Stati Uniti hanno completato l’allestimento di un pontile lungo la costa di Gaza, che era stato annunciato dal presidente Biden oltre due mesi or sono, nel discorso sullo stato dell’Unione del 7 marzo. L’infrastruttura è destinata ad aumentare il flusso di aiuti umanitari nella Striscia, acqua, viveri, medicinali, carburante; ed è stata realizzata senza la presenza a terra militari americani.
L’obiettivo è di scaricare, grazie al pontile, fino a 150 autotreni al giorno. Ma le operazioni procedono a rilento, per motivi di sicurezza e organizzativi. Gli operatori umanitari a Rafah lamentavano, martedì, di non avere ricevuto aiuti nelle ultime 48 ore. E gli esperti concordano che il pontile può essere utile, ma non può sostituirsi ai valichi chiusi.
Nel governo israeliano, s’aggrava la frattura sull’assetto della Striscia di Gaza dopo la guerra. Benny Gantz, un leader dell’opposizione, ma che fa parte del Gabinetto di Guerra, minaccia dimissioni, se entro l’8 giugno non ci sarà un piano, Netanyahu ha sempre detto finora che Israele non intende restare a Gaza, una volta che Hamas ne sia stata “eradicata”; l’esercito, però, sta allestendo strade, postazioni e una zona cuscinetto lungo il Corridoio Netzarim che va dal confine tra Israele e la Striscia al Mediterraneo. Mosse che suggeriscono il contrario.
L’esercito israeliano ha recuperato i corpi di tre ostaggi rapiti il 7 ottobre al rave organizzato lungo la frontiera tra Israele e la Striscia e che – secondo quanto ricostruito dall’intelligence – sarebbero già stati uccisi quel giorno stesso. Sono la tedesco-israeliana Shani Louk, 23 anni, le cui immagini, al momento del sequestro, ferita e dolorante, avevano suscitato grande emozione; di Amit Buskila, 28 anni, e di Yitzhak Gelranter, 56 anni.
C’è pure da registrare l’ennesimo screzio tra Israele e Stati Uniti. A generare proteste, questa volta, è una limitazione della libertà d’informazione sulla guerra ai danni di un media americano, dopo che Israele aveva già chiuso l’ufficio di corrispondenza della tv del Qatar al Jazeera. Gli israeliani sequestrano materiale e installazioni all’Associated Press, la maggiore agenzia di stampa mondiale con la Reuters, accusandola di violare la legge sui media fornendo informazioni e immagini proprio ad al Jazeera; e glielo restituiscono solo dopo un intervento, discreto, ma non troppo, dell’Amministrazione Biden.
Sul fronte dei negoziati, poco o nulla si muove, almeno per quanto se ne sa. Il presidente Biden conferma l’opzione dei due Stati, ma, nel contempo, la sua Amministrazione sollecita il Qatar perché espella i leader di Hamas cui offre ospitalità se non dovessero favorire un’intesa con Israele.
Guerre. Ucraina, fronte in stallo, l’Ue e il problema dei rifugiati
Nella guerra in Ucraina, negli ultimi giorni la situazione è rimasta sostanzialmente inalterata, anche se l’intensità di bombardamenti e combattimenti pare essersi attenuata. 10 mila persone sono state evacuate da Kharkv, la seconda città del Paese, sotto attacco russo.
La visita in Cina, la scorsa settimana, del presidente russo Vladimir Putin s’è risolta in uno show d’amicizia e di collaborazione fra i due Paesi. Per Putin, era la prima visita all’estero del suo nuovo quinto mandato e la seconda in Cina in otto mesi.
A Kiev, il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha respinto l’ipotesi di tregua olimpica prospettata dal presidente francese Emmanuel Macron: “Siamo contrari fare il gioco del nemico … Nessuno può garantire che la Russia non approfitterà della tregua per portare altre sue forze sul nostro territorio”.
L’Ue progetta di aprire formalmente i negoziati per l’adesione dell’Ucraina il 25 giugno e vara misure per destinare a Kiev gli extra-profitti generati dai beni russi immobilizzati nei 27, sotto forma d’aiuti per la difesa e la ricostruzione. Un rapporto del Parlamento europeo sui rifugiati ucraini (4,1 milioni di persone) segnala che a marzo 2025 scadrà la direttiva di permesso temporaneo e bisognerà decidere cosa fare e come coprire eventuali spese. Gli Stati membri hanno finora ricevuto fino a 17 miliardi per rispondere ai bisogni di chi fugge dalla guerra.