Esteri

Guerre: MO, la tregua è data per imminente; Ucraina, conquista di posizioni negoziali

15
Gennaio 2025
Di Giampiero Gramaglia

Questa doveva essere una settimana di attesa: bocce ferme nell’Universo Mondo, aspettando l’insediamento alla Casa Bianca, lunedì 20, di Donald Trump, il 47° presidente degli Stati Uniti. Invece, assistiamo ad accelerazioni delle dinamiche belliche e/o negoziali, dal Medio Oriente all’Ucraina: l’‘effetto Trump’ si fa già sentire ed è possibile che alcuni sviluppi, come una tregua nel conflitto tra Israele e Hamas nella Striscia di Gaza, maturino nell’imminenza o in coincidenza con il 20 gennaio.

Specie in Medio Oriente, le parti in causa possono, infatti, essere interessate ad acquisire meriti presso l’Amministrazione Trump 2, sbrogliandole una matassa ingarbugliata, concedendo contemporaneamente un successo in extremis al lavorio diplomatico dell’Amministrazione Biden. In quella che appare la fase finale del negoziato mediato tra Israele e Hamas, il segretario di Stato uscente Antony Blinken ha persino predisposto un piano per la ricostruzione e per la governance nella Striscia di Gaza, che va ben oltre i limiti del suo mandato e che dà la gestione della Striscia all’Autorità nazionale palestinese con una formula ibrida.

Secondo fonti concordi, i negoziatori israeliani e palestinesi, con i mediatori arabi e americani, hanno fatto significativi progressi nel mettere a punto di un’intesa per una tregua di sei settimane e il rilascio di decine di ostaggi in cambio della liberazione di centinaia di detenuti palestinesi, anche se, mentre scriviamo, l’accordo non è stato ancora perfezionato – e non sarebbe la prima volta che sfuma in extremis, anche se le circostanze sembrano più incoraggianti che in passato -. A Doha, dove si negozia, c’è anche una delegazione della Jihad palestinese, un’organizzazione secondaria della galassia palestinese, nelle cui mani sono degli ostaggi.

Nonostante le trattative, la guerra continua, però, a mietere vittime: decine ogni giorno nella Striscia dove, martedì, solo negli episodi più recenti, un attacco aereo israeliano a Deir al-Balah ha ucciso almeno 10 palestinesi e ne ha feriti altri; e un’altra azione contro una casa, a Rafah, cinque persone, tra cui una donna, sono state ammazzate e altre quattro sono rimaste ferite. Le parti in causa non paiono avvertire l’urgenza di fermare la carneficina: a Khan Younis, dove per Israele Hamas teneva un centro di comando in uffici comunali, bombe aeree hanno ucciso decine di persone. 

Tutta la Regione resta teatro di episodi bellici: martedì, aerei americani e britannici hanno condotto raid contro obiettivi degli Huthi nello Yemen, dopo nuovi attacchi missilistici dallo Yemen verso Israele e dopo azioni di disturbo della navigazione commerciale nel Mar Rosso.

Il conflitto, che dura da 470 giorni, scaturisce del massacro del 7 ottobre 2023 compiuto da Hamas e da altre sigle terroristiche palestinesi in territorio israeliano: 1.200 morti e circa 250 ostaggi presi. Ad oggi, il bilancio della guerra è di oltre 46 mila palestinesi uccisi, soprattutto donne, bambini, anziani, fra cui centinaia di operatori sanitari e umanitari e centinaia di giornalisti. I caduti israeliani sono quasi 900, il che rende il conflitto il più sanguinoso per l’esercito israeliano da quello nel 1973 dello Yom Kippur: il bilancio include morti in combattimento e/o in incidenti e sospetti suicidi.

Guerre: Medio Oriente, la bozza d’accordo
Secondo l’Associated Press ha avuto una copia della bozza d’accordo, restano ostacoli da superare, senza contare le resistenze dentro la coalizione al governo in Israele. In ottica geo-politica, Israele e specialmente il premier Benjamin Netanyahu sono più interessati a compiacere il nuovo presidente degli Stati Uniti che a rendere un omaggio tardivo al presidente uscente: la diplomazia di Biden, sempre in bilico tra la vicinanza a Israele e l’urgenza di fare cessare il massacro, non ha mai cavato un ragno dal buco, se si eccettua la breve tregua dell’autunno 2023, nonostante decine di missioni nella Regione, anche a causa proprio dei pessimi rapporti tra i due leader, Netanyahu e Biden.

Israele e Hamas si attribuiscono l’un l’altro la responsabilità del finora mancato accordo definitivo: Israele dice che manca il sì dei leader di Hamas; Hamas sostiene che Israele non fornisce le mappe del ritiro. 

Nella bozza dell’Ap, la tregua è in tre fasi e prevede che Hamas rilasci nella prima fase 30 persone, in cambio di più di mille palestinesi detenuti in Israele, alcuni dei quali con condanne all’ergastolo. Nello specifico, per liberare cinque soldatesse, i miliziani otterranno 250 detenuti: 50 per ostaggio. Fra i detenuti liberati, non vi sarebbe, però, Marwan Barghuthi, uno dei capi della prima e seconda Intifada e uno dei leader in pectore dei palestinesi.

Durante tutta la prima fase, l’esercito israeliano manterrebbe il controllo del Corridoio Filadelfia – la fascia di territorio lungo il confine della Striscia con l’Egitto – da cui Hamas aveva inizialmente chiesto il ritiro di Israele -. L’esercito israeliano si ritirerà, invece, dal Corridoio Netzarim, che attraversa la parte centrale della Striscia dove i militari volevano creare posti di controllo per filtrare il ritorno dei miliziani a nord.

Nella seconda fase, Hamas rilascerebbe gli altri ostaggi ancora in vita, soprattutto soldati maschi, ottenendo in cambio altri prigionieri e il “completo ritiro” delle forze israeliane da Gaza.

La terza fase prevede che i corpi degli ostaggi rimanenti – tra vivi e morti, sarebbero un centinaio, complessivamente – vengano restituiti in cambio di un piano di ricostruzione da tre a cinque anni, da realizzare nella Striscia sotto la supervisione internazionale.

Restano passaggi non chiariti: Hamas dichiara che, nella seconda fase, non libererà gli ostaggi rimanenti senza la fine della guerra, oltre che il completo ritiro delle forze israeliane; Israele minaccia di riprendere le ostilità se non saranno eliminate le capacità militari di Hamas, che dovrà pure essere privata di competenze amministrative.

In Israele, la partita non è solo contro i nemici esterni, ma si gioca anche tra i vari poteri dello Stato. La Corte Suprema israeliana ha bocciato la parte di una legge che avrebbe aumentato il controllo sulla polizia del ministro della Sicurezza nazionale, Ben Gvir, un esponente dell’estrema destra, cui spetterà, comunque, tracciare “le priorità fondamentali” dell’attività investigativa. La reazione dell’estrema destra non si è fatta attendere: “La magistratura volta di nuovo le spalle al popolo ed alla volontà degli elettori”.

Guerre: punto, Ucraina, l’energia di nuovo usata come arma
Sul fronte ucraino, in questa fase la guerra sembra combattuta essenzialmente per conquistare posizioni in vista del negoziato che verrà e che appare inevitabile e imminente, con preparativi già avviati per incontri di Trump con i presidenti ucraino Volodymyr Zelensky e russo Vladimir Putin.

Kiev ha rilanciato l’offensiva nella regione di Kursk, dove mantiene una testa di ponte; ha catturato in territorio russo due soldati nord-coreani, da cui conta di ricavare informazioni su unità e mezzi nord-coreani schierati a fianco dei russi; e rivendica di aver sferrato “la più massiccia” ondata d’attacchi su obiettivi “dentro il territorio della Federazione russa” dall’inizio del conflitto, ormai quasi tre anni or sono.

Il Cremlino conferma la circostanza, denunciando e dettagliando l’utilizzo da parte di Kiev di droni e di missili ricevuti dall’Occidente: “Sei missili operativi-tattici Atacms di fabbricazione americana e sei missili da crociera Storm Shadow di fabbricazione britannica, oltre a 31 droni”. Secondo Mosca, la minaccia è stata sventata, i missili abbattuti, i droni intercettati.

Nel Donbass, l’avanzata russa prosegue, tanto che il gruppo minerario ucraino Metinvest ha deciso di chiudere la miniera di Pokrovsk, fondamentale per l’industria siderurgica di Kiev.

Un fatto nuovo importante è stata la sospensione, da parte ucraina, del transito di gas russo verso l’Unione europea, essendo spirato a fine 2024 un accordo pre-invasione trav Kiev e Mosca. Anche se il gas russo, che fino al 2021 rappresentava il 40% dell’approvvigionamento europeo, ha oggi un’importanza molto minore, essendo stato sostituito da forniture dalla Norvegia o dall’Algeria, oppure dagli Stati Uniti, la mossa ucraina colpisce quelli fra i Paesi Ue più filo-russi, che mantengono rapporti energetici importanti con Mosca, in particolare l’Ungheria e la Slovacchia, oltre che – per motivi diversi – la Moldavia.

Il premier slovacco Robert Fico, che s’è recentemente offerto come mediatore tra Russia e Ucraina, trovando in Putin echi positivi alla sua proposta, parla di “impatto drastico” della misura ucraina, mentre la Commissione europea si dice “ben preparata ad affrontare la fine del transito del gas attraverso l’Ucraina”, grazie ai “quattro principali percorsi di diversificazione, con volumi principalmente provenienti dai terminali Gnl in Germania, Grecia, Italia e Polonia e forse anche dalla Turchia. Per Fico, la misura ucraina “danneggerà più l’Ue dalla Russia”.

Ma, anche se al fronte ancora si muore e se nelle città ucraine i bombardamenti russi fanno ancora vittime, l’attenzione è tutta rivolta alle mosse pre-negoziali di Trump, che resta alla finestra, Putin e Zelensky, mentre l’Amministrazione Biden ha praticamente raschiato il fondo del barile degli aiuti all’Ucraina già stanziati dal Congresso. Sviluppi sono attesi a breve, dopo l’insediamento di Trump, anche se il magnate, che in campagna diceva che la guerra in Ucraina sarebbe finita “il giorno dopo il suo ritorno alla Casa Bianca”, adesso prende tempo e si dà sei mesi per l’incontro con Putin.