Esteri

Guerre: l’ombra del plebiscito pro Putin su fame e stragi a Gaza e l’invasione dell’Ucraina

20
Marzo 2024
Di Giampiero Gramaglia

Nella Striscia di Gaza, la catastrofe umanitaria è immanente da mesi, la fame e la carestia hanno già fatto vittime e stanno per divenire devastanti. L’allarme parte da Roma, dove ha sede il Programma alimentare mondiale, un’agenzia dell’Onu: il 70% dei palestinesi della Striscia, un milione e mezzo di persone, rischiano di non avere da mangiare. Praticamente chiunque abita a Gaza ha già difficoltà a procurarsi il cibo e 210 mila persone nel Nord, al confine con Israele, sono al livello 5, il più alto nella scala della crisi da fame.

Dall’Ue, partono critiche a Israele: il premier belga Alexander De Croo – il Belgio ha la presidenza di turno del Consiglio dei Ministri dei 27 – denuncia il ricorso alla fame come “arma di guerra” e sollecita Israele ad abbandonare i piani per un’offensiva di terra nella città di Rafah; Josep Borrell, capo della diplomazia europea, gli va in scia, ripropone la denuncia dell’uso della fame come “arma di guerra”: “Al valico di Rafah – dice -, le derrate alimentari vengono bloccate. Non sono mai stati registrati livelli di insicurezza alimentare simili in nessuna parte del Mondo”.

Parlandosi al telefono lunedì 18 marzo -la prima volta dal 15 febbraio-, il presidente Usa Joe Biden e il premier israeliano Benjamin Netanyahu hanno discusso per oltre un’ora delle divisioni che si sono accentuate fra i due Paesi alleati, in particolare sul dramma umanitario ed alimentare di Gaza e sulla condotta della guerra, che continua a registrare episodi raccapriccianti. C’è stata di nuovo battaglia all’ospedale di al Shifa: circa 50 le vittime e circa 80 gli arresti (tra i morti Fàaq Mabhouh, capo della sicurezza interna di Hamas). E nella notte tra martedì e mercoledì una trentina di persone sono state uccise in un bombardamento israeliano sul campo profughi di Nuseirat.

Le vie del negoziato restano aperte. Egitto, Qatar e Stati Uniti continuano a trattare con Israele e Hamas perché si giunga a una tregua e alla liberazione degli ostaggi – tutti o una parte -, in cambio della scarcerazione di detenuti palestinesi. L’intesa pare a un passo, ma non si concretizza.

Gli sviluppi del conflitto in Medio Oriente e quelli dell’invasione dell’Ucraina da parte della Russia si collocano sullo sfondo delle presidenziali in Russia: una sorta di plebiscito per Vladimir Putin, che ne esce oggettivamente legittimato e rafforzato, nonostante il voto non sia stato, recitano in coro le cancellerie occidentali, “né libero né equo” e rifletta “il momento cupo della democrazia globale” – il giudizio è di Ishaan Tharoor, sul Washington Post -.

Ne parlano, giovedì e venerdì, a Bruxelles, i capi di stato e/o di governo dei Paesi dell’Ue, che hanno pure in agenda, sui fronti interni, bilancio e migranti. Illustrando in Parlamento la posizione dell’Italia al Vertice, la premier Giorgia Meloni rinnova il no all’invio di truppe di Paesi della Nato in Ucraina, evocato dal presidente francese Emmanuel Macron dopo una riunione trilaterale, venerdì 15 marzo, con il cancelliere tedesco Olaf Scholz e il premier polacco Donald Tusk. Non ci saranno sviluppi sull’adesione dell’Ucraina all’Ue: Kiev sarebbe pronta a negoziare, ma Bruxelles vuole lasciare passare le elezioni di giugno per il rinnovo del Parlamento europeo.

A rassicurare i leader dell’Ue, che, con poche eccezioni, sono anche leader della Nato, non bastano certo le ultime parole dell’ex presidente Usa Donald Trump, che dopo avere minacciato “un bagno di sangue” se non sarà eletto, salvo poi dire che si riferiva ai posti di lavoro nel settore dell’auto, avrebbe detto che “non lascerà la Nato, se l’Europa paga quel che deve”. La confidenza sarebbe stata fatta a Nigel Farage, l’uomo della Brexit – e già questo appare incongruo -; e suona solo parziale correzione di tiro rispetto alla precedente affermazione, secondo cui gli alleati degli Usa che non pagano saranno lasciati al loro destino, anzi segnalati a Putin perché ne faccia quel che vuole.

Guerre: Israele – Hamas, scene dalla Striscia di Gaza
Il conflitto nella Striscia, innescato dal massacro compiuto da Hamas il 7 ottobre con 1.200 morti e centinaia di ostaggi catturati – s’avvicina al 170° giorno, con un bilancio di oltre 31.000 palestinesi uccisi, nella stragrande maggioranza civili, donne, bambini. Lo Stato ebraico ha perso 250 militari. Vivissime le polemiche sulla situazione dei civili. Philippe Lazzarini, capo dell’agenzia dell’Onu per i rifugiati, protesta perché l’esercito israeliano non gli permette di entrare nella Striscia.

Il crescente distacco tra Usa e Israele trova conferma nelle parole del capo dei senatori democratici a Washington, Chuck Schumer definisce Netanyahu un ostacolo alla pace e sollecita nuove elezioni e una nuova leadership israeliana: la sua è la più aspra critica statunitense a Israele ed è un sintomo di quanto alta sia nell’Amministrazione democratica la frustrazione nei confronti di Netanyahu.

Preoccupano pure i riflessi interni agli Stati Uniti, sul piano della sicurezza con atti di antisemitismo e di islamofobia, e su quello elettorale, con gli elettori arabo-americani e di sinistra che contestano all’Amministrazione Biden la sterilità degli appelli alla moderazione nell’uso della forza sui civili, alla tregua e agli aiuti umanitari.

Sul piano militare, Israele è certa di avere eliminato Marwan Issa, il comandante di Hamas più alto in grado fin qui ucciso in questa guerra. Issa avrebbe avuto un ruolo centrale nell’organizzazione degli attacchi terroristici del 7 ottobre e nelle operazioni nella Striscia. Una ricostruzione mediatica mette in dubbio la versione data dall’esercito israeliano di un episodio bellico del 7 gennaio, in cui furono uccisi due giornalisti al Al Jazeera, Hamza Dahdouh and Mustafa Thuraya, due dei circa 90 operatori dell’informazione ammazzati nella Striscia dal 7 ottobre: è stato il periodo più letale per i professionisti dell’informazione da quando, nel 1992, il Committee to Protect Journalists ha iniziato a raccogliere i dati.

Guerre: Ucraina, stasi al fronte e negli aiuti a Kiev, angosce nucleari
In Ucraina, le elezioni russe non hanno visto un rallentamento di bombardamenti e combattimenti. La vigilia del voto coincideva con i 10 anni dall’annessione della Crimea alla Russia nel 2014: Sergiei Lavrov, ministro degli Esteri, esclude che si torni indietro, “La penisola è parte integrante della Federazione russa”. Lunedì 18, nella festa per celebrare la rielezione sulla Piazza Rossa, Putin lo ribadisce. E il concetto, per Mosca, si estende ai quattro territori annessi nel 2022.

Le notti sono la scena di attacchi con droni e missili: Odessa viene ripetutamente colpita, come pure in Russia Belgorod, dove le autorità chiudono scuole e centri commerciali per alcuni giorni. Secondo fonti ucraine, nella regione meridionale russa di Samara sono state colpite tre raffinerie, che lavorano 25 milioni di tonnellate di greggio l’anno, pari a quasi il 10% delle scorte russe.

Mentre gli aiuti militari Usa restano bloccati dalle beghe politiche tra democratici e repubblicani, tutte in chiave elezioni presidenziali del 5 novembre – e l’Amministrazione Biden sembra quasi averne perso la speranza -, l’Ue ufficializza, dopo settimane di cincischii burocratici, aiuti a Kiev per 5 miliardi di euro, che, però, come mette in evidenza Politico, sono essenzialmente recuperi e reimpieghi di somme già stanziate.

Forse percependo la stanchezza – e le paure – dell’Occidente, Putin, prima e dopo essere rieletto, ricorda che, se attaccata sul proprio territorio, la Russia è pronta a usare l’arma nucleare, qualora percepisse minacciate la propria integrità e la propria indipendenza. Ma il presidente russo esclude il ricorso all’atomica in Ucraina, non prevede una deriva nucleare dell’attuale conflitto e descrive Biden come “un veterano della politica che capisce i pericoli di un’escalation”.

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