Esteri
Conflitti dimenticati: il terrorismo che tiene in ostaggio il Mali
Di Flavia Iannilli
È notizia di inizio anno che la Francia abbia deciso di chiudere l’operazione Barkhane e la missione europea Takuba ritirando le truppe in Mali e rimodulando la propria presenza sul territorio. A distanza di 9 anni la decisione arriva da una dichiarazione congiunta rilasciata a conclusione del G5 Sahel (Burkina Faso, Ciad, Mali, Mauritania e Niger). L’Eliseo ha preso in mano le redini della situazione, il motivo? “a causa delle molteplici ostruzioni delle autorità transitorie maliane (…) non sussistono più le condizioni politiche, operative e legali per continuare l’attuale impegno militare contro il terrorismo” questo è quanto spiegato nella comunicazione.
Decisione presa dopo aver chiesto insistentemente alla giunta militare maliana di convocare delle elezioni prima di febbraio, mese in cui è stato scelto di interrompere la missione Barkhane.
Il Mali non ha tardato a far sentire l’altra parte della campana. Dichiarando non solo di essere in totale disaccordo con la presa di posizione della Francia, ma accusandola di non aver consultato il nuovo governo e di essere la responsabile del deterioramento della sicurezza del paese stesso. Il riferimento è all’estensione delle forze jihadiste nella regione che precedentemente rimanevano confinate nella parte settentrionale del paese.
Un passo indietro
Nel 1960 la parte di territorio chiamata Sudan Francese acquisisce l’indipendenza dalla Francia e diventa la Repubblica del Mali. Dopo più di trent’anni di dittatura nel 1991 Amadou Toumani Toure guida un colpo di stato militare stabilendo una nuova costituzione e istituendo una democrazia multipartitica. Ma nel 2012 le tensioni etniche entrano nel vivo. Un nuovo colpo di stato destituisce il governo e sospende la costituzione. La causa scatenante? La difficile situazione nel nord del paese dove si era ridestata la ribellione tuareg – MNLA (Movimento nazionale di liberazione dell’Azawad) sostenuto da movimenti islamici integralisti uniti ad Al-Qaida nel Maghreb islamico (Ansar Dine e MUJAO, Movimento per l’unità e la jihad nell’Africa occidentale) -. MNLA prende il controllo della parte settentrionale comportando l’espulsione dei militari dall’area e favorendo lo sviluppo di roccaforti terroristiche nel territorio.
Da qui nasce la spedizione di corpi militari francesi, coadiuvati da truppe ciadiane e nigeriane, a sostegno dell’esercito maliano. L’azione congiunta consente di riconquistare rapidamente parte del nord del paese. Nonostante gli sforzi internazionali per raggiungere un accordo di pace tra governo maliano e ribelli del nord la situazione rimane precaria fino ai giorni nostri. Complici le deboli milizie locali, i continui attacchi terroristici e la crescita delle rivolte antioccidentali; tre fattori che minano la possibilità di trovare un equilibrio.
Ma l’obiettivo di stabilizzare la regione del G5 Sahel combattendo gli attacchi di matrice islamica, contrastando le forze del JNIM (Jama’at Nasr al-Islam wal Muslimin), gruppo vicino ad al-Qaeda, e dell’ISGS (Islamic State in the Greater Sahara), non è stato abbandonato. Tra giugno e settembre le forze militari delle missioni internazionali verranno rimodulate. Su un totale di 5mila soldati francesi presenti nel Sahel 2.400 verranno spostati in Niger e così anche le truppe dei paesi alleati, valutando anche la possibilità di rafforzare la presenza in Burkina Faso.
Il malcontento della popolazione verso i governi democratici filofrancesi susseguitisi nel tempo ha spalancato le porte ad altre potenze mondiali. Il filo che lega Mali e Russia non è poi così sottile. Ne è una testimonianza l’invio dei mercenari del Gruppo Wagner da parte del Cremlino dopo la richiesta partita da Bamako – capitale del Mali – di garantire stabilità al paese.
A febbraio di quest’anno il Presidente francese Emmanuel Macron ha dichiarato: «La vittoria contro il terrorismo non è possibile se non è sostenuta dallo Stato» giustificando la scelta di interrompere le missioni in Mali. Ma c’è chi pensa che le recenti evoluzioni dello scenario afghano, avvenute in tempi molto ristretti, abbiano spinto l’Eliseo a fare marcia indietro prima di dover dichiarare fallita un’operazione che durava da quasi dieci anni.