Esteri
11 Settembre – Usa 2024: un ricordo che sbiadisce in un Paese diviso
Di Giampiero Gramaglia
Il clima già elettorale e la crescente polarizzazione del discorso politico inquinano le celebrazioni dell’anniversario dell’attacco all’America dell’11 Settembre 2001. Alcuni Stati dell’Unione valutano la possibilità di ricorrere al 14o emendamento della Costituzione Usa in funzione anti-Trump.
Il magnate ex presidente, aspirante alla nomination repubblicana, è largamente in testa nei sondaggi, nonostante la ridda di rinvii a giudizio – ben quattro e, forse, non è finita -. E allora c’è chi ipotizza di metterlo fuori gioco ricorrendo all’emendamento approvato dopo la Guerra Civile del 1861/’65, che vieta di ricoprire cariche pubbliche a qualsiasi funzionario coinvolto “in un’insurrezione o ribellione”, come appunto quella del 6 gennaio 2021, quando, sobillati dall’allora presidente, migliaia di facinorosi diedero l’assalto al Campidoglio per indurre il Congresso, riunito in plenaria, a rovesciare l’esito delle presidenziali del 3 novembre 2020 vinnte da Joe Biden.
Il 14o emendamento è stato utilizzato solo due volte dalla fine dell’ ‘800. Gli Stati che intendono farvi ricorso sono New Hampshire e Michigan, ma anche Florida, Ohio, Wisconsin, Pennsylvania, North Carolina, New Mexico e Nevada vagliano l’ipotesi. Ma c’è chi teme un effetto boomerang: finora, i rinvii a giudizio sembrano rafforzare Donald Trump, che, almeno per i suoi sostenitori, s’ammanta del velo del perseguitato politico, mentre Biden, il presidente in esercizio, perde consensi anche fra i suoi potenziali elettori.
11 Settembre: un riccordo che sbiadisce, una giustizia difficile, lenta e dubbia
Prima di partire per l’India, dove partecipa al G20, il presidente ha respinto alcune condizioni poste dai legali di cinque integralisti a giudizio per l’11 Settembre per un eventuale patteggiamento. L’intesa prevedeva che i cinque riconoscessero le loro colpe e accettassero una condanna al carcere a vita, in cambio di assicurazioni sul fatto che non sarebbero stati messi in isolamento e che avrebbero ricevuto cure per i traumi conseguenti alle torture subite dalla Cia.
Il rifiuto di Biden di dare ai legali dei terroristi garanzie presidenziali lascia a pubblici ministeri e difensori il compito di trovare un altro accordo. Numerosi esperti giudiziari ritengono che non ci siano i presupposti legali per incriminare e processare gran parte dei ‘nemici combattenti’ detenuti da vent’anni e più nel carcere di Guantanamo, un’anomalia nel sistema penitenziario statunitense.
Ee è evidente che la giustizia statunitense, di solito molto rapida, è a disagio in un contesto in cui, 22 anni dopo gli attentati, il Pentagono e l’Fbi stanno cercando di preparare le famiglie all’eventualità che i processi non si facciano o non vadano mai in porto.
Nell’anniversario, la liturgia del ricordo è sostanzialmente immutata, ma l’intensità dell’emozione cala; e, come avviene da anni, la ricorrenza non riaccende il patriottismo, ma le polemiche: sotto accusa, le lentezze della magistratura nel perseguire i responsabili, o almeno le menti e i complici dell’attacco all’America, o cui autore – 19 terroristi – morirono tutti nella loro azione, con le loro circa 3000 vittime.
Quel martedì mattina di 22 anni or sono, tre aerei di linea dirottati si schiantarono due sul World Trade Center a Manhattan, innescando il crollo delle Torri, e uno contro un’ala del Pentagono ad Arlington, appena fuori Washington. La rivolta dei passeggeri a bordo portò un quarto aereo, che doveva forse colpire il Congresso o la Casa Bianca, a precipitare a Shanksville, in Pennsylvania.
I riti del dolore restano inalterati: la chiama delle vittime là dove c’era il World Trade Center (poi Ground Zero) e al Pentagono; i minuti di silenzio; i tintinnii di campanella all’ora degli schianti degli aerei e del crollo delle Torri; il minuto di silenzio a Wall Street e in molte scuole e sui luoghi di lavoro. Ma l’intensità va sbiadendo di anno in anno: il tempo rende slavate le emozioni, cambia le vite dei superstiti, porta via protagonisti e testimoni. Ormai oltre un americano su quattro non ha un proprio ricordo di quegli eventi, perché era troppo piccolo o non era ancora nato quel giorno.
Non è solo il calendario ad appannare le commemorazioni; e non sono solo le pastoie giudiziarie che alimentano le polemiche. Ci sono almeno altri tre fattori: la polarizzazione dell’Unione, gli insuccessi nella guerra al terrorismo, il conflitto in Ucraina. L’America 2023 è molto meno coesa e unita di quella 2001 ed è ben lontana dall’afflato solidale e patriottico che l’attacco suscitò, nel bene e nel male – guerre in Afghanistan e in Iraq, torture, ‘renditions’, violazioni dei diritti fondamentali -. Oggi, progressisti e ‘trumpiani’ provano reciproca diffidenza e non stanno volentieri l’uno accanto all’altro: rabbia ed astio ‘domestici’ prevalgono sulla percezione indefinita di un nemico comune.
Del resto, la guerra al terrorismo non ha portato i frutti sperati; anzi, s’è risolta in un palese smacco. Due anni fa, nell’agosto 2021, la rotta di Kabul, con la consegna dell’Afghanistan ai talebani, diede plastica evidenza al fallimento di vent’anni d’inutile (e cruenta) presenza militare in quel Paese. E, dall’anno scorso, la guerra in Ucraina insanguina le cronache e accresce preoccupazioni e ansie, spostando le paure dal fronte del terrorismo a quello, ancor più spaventoso,dell’olocausto nucleare.
Il processo a Khalid Shaikh Mohammed egli altri quattro presunti elementi di al Qaida, le cui basi sono legalmente fragili, si trascina da anni, tra udienze di continuo rinviate o cancellate: negli Usa, non accade quasi mai. Nel 2009, l’allora presidente Barack Obama annunciò che Mohammed sarebbe stato trasferito a New York e giudicato da un tribunale federale di Manhattan. Non è mai accaduto, anche per la riluttanza della città e l’esorbitanza dei costi della sicurezza. Come rimase lettera morta la promessa di Obama di chiudere Guantanamo.
Così, la giustizia, se è tale, è arrivata da operazioni di commandos delle forze speciali, come quella che il 2 maggio 2011 eliminò il capo di al Qaida Osama bin Laden, oppure dai droni della Cia, che il 31 luglio 2022 uccisero a Kabul il suo successore Ayman al-Zawahiri.
Usa 2024: una campagna elettorale perenne
In perenne campagna elettorale, e in guerra costante con il sistema giudiziario, che lo ha già rinviato a giudizio quattro volte, Donald Trump getta benzina sul fuoco delle divisioni e attacca l’Amministrazione Biden e magistrati e inquirenti, risvegliando i fantasmi di un’America che ha dentro di sé il nemico più insidioso, il germe del populismo e del complottismo.
Nei giorni scorsi, l’ex presidente s’è dichiarato non colpevole dei 13 reati contestatigli in Georgia, per i tentativi di ribaltare i risultati delle elezioni in quello Stato. In tal modo, il magnate ha evitato di ripresentarsi in un’aula di tribunale ad Atlanta mercoledì 6 settembre.
S’è intanto appreso che il processo in Georgia, che molti considerano il più insidioso per Trump doveva coinvolgere fino a 39 presunti complici dell’ex presidente, fra cui il senatore repubblicano Lyndsey Graham, gli ex senatori repubblicani della Georgia David Perdue e Kelly Loeffler e l’ex capo dello staff della Casa Bianca Michael Flynn.
Dopo avere sentito decine di testimonianze, un Grand Jury ne aveva suggerito l’incriminazione. Ma gli inquirenti hanno poi scelto di limitarsi a 19 incriminazioni, il magnate e 18 suoi sodali, fra cui l”ex capo dello staff dell Casa Bianca Mark Meadows, che ha cercato di fare trasferire il processo da una corte statale a una federale – l’istanza è stata respinta -. Un altro imputato, Rudy Giuliani, è stato già giudicato responsabile di avere diffamato due funzionari elettorali della Georgia,
E, nelle ultime settimane, i giudici hanno avuto la mano pesante contro ex leader dei ProudBoys, una banda suprematista pro-Trump, che organizzarono – o furono protagonisti – del 6 gennaio 2021. Il capo della gang, Enrique Tarrio, che non era a Washington, è stato condannato a 22 anni; e due suoi luogotenenti, presenti sulla scena, dovranno scontare 18 e 17 anni. Sono le pene più severe finora inflitte per l’insurrezione.
I guai giudiziari del magnate ex presidente non si limitano ai quattro rinvii a giudizio. A New York, Trump chiede l’archiviazione della causa intentata dalla procura locale per avere gonfiato il valore dei suoi asset fino a 2,2 miliardi di dollari. La pubblica accusa considera, invece, “palese” il reato.
Biden, l’ombra di un procedimento di impeachment
Pure Biden, però, ha le sue grane, politiche e potenzialmente giudiziarie. I repubblicani, che sono maggioranza alla Camera, tengono viva l’ipotesi di un procedimento di impeachment – destinato, comunque, ad arenarsi al Senato -. Tutto nasce dai comportamenti del figlio del presidente, Hunter, i cui conti con la giustizia civile e penale restano aperti: potrebbero esserci sviluppi entro il mese.
Ma ciò non contribuisce alla popolarità di Biden, 80 anni. Un sondaggio della Cnn indica che tre suoi potenziali elettori su quattro sono preoccupati per il suo stato di salute fisica e mentale e che due su tre preferirebbero un candidato più giovane e più efficiente. Ma il dato forse più allarmante è che quasi la metà (il 46%) dell’insieme dei potenziali elettori considerano un qualsiasi candidato repubblicano meglio del presidente uscente. Età e salute nonn paiono invece costituire, agli occhi degli elettori, un handicap per Trump, 77 anni.
E’ uno dei paradossi di una leadership geriatrica, che riguarda entrambi i partiti. Fra i democratici, Nancy Pelosi, 83 anni, ex speaker della Camera, ha appena annunciato che si ricandiderà nel 2024 per un ennesimo mandato, “per contribuire a riconquistare la maggioranza alla Camera e rinnovare il partito”. Fra i repubblicani, Micht McConnell, 81 anni, resta leader della minoranza al Senato, nonostante le ormai ripetute ‘defaillances’ in pubblico.