Economia
Riconcepire l’economia per affrontare la fine della globalizzazione
Di Massimiliano Mellone
Ha preso ieri il via il Festival dell’Economia di Trento. Quattro giorni con oltre duecento incontri in cui politici, imprenditori e accademici si confrontano sul mondo che cambia con particolare attenzione alle conseguenze economiche della guerra in Ucraina e al post pandemia. Nella prima giornata sono state tante le suggestioni sulle prospettive economiche nazionali e internazionali, sui potenziali rischi di recessione, e sui cambiamenti nel processo di globalizzazione che stanno caratterizzando la nostra epoca.
L’economia globale peggiora ma per ora non ci sono aspettative di recessione: concordano Marcello Estevao, il direttore generale per la Macroeconomia della World Bank, e l’ex ministro dell’Economia e delle Finanze Giovanni Tria, intervistati a Trento. Tuttavia non è da sottovalutare la crescita dei fattori di rischio. «Non ci aspettiamo recessione per gli Stati Uniti e l’Europa – ha detto Estevao – anche se l’Europa sarà toccata maggiormente dallo shock energetico generato dalla guerra in Ucraina. Andiamo comunque verso una situazione differenziata da Paese a Paese: in particolare i più colpiti saranno quelli più sensibili al rialzo dei tassi negli Usa e in Europa».
Per Tria «non ci sono previsioni di recessione ma i modelli previsivi, derivati dagli analisti dei mercati finanziari, non stanno funzionando bene. Il rischio di recessione arriva oggi soprattutto dai gravi errori di policy che stanno facendo i Paesi maggiori». Un esempio è quello dell’interruzione delle catene globali della produzione, lo shock in atto dal lato dell’offerta. «Qui c’è uno degli effetti più dannosi della guerra in Ucraina perché non riparte il dialogo necessario per ricostituire le catene globali della produzione». Secondo Tria dovrebbero essere proprio accordi tra i Paesi, promossi da organismi internazionali come World Bank o World Trade Organization, a favorire il superamento di un’economia divisa in blocchi che è anche l’eredità della fine della globalizzazione.
«Certamente la tendenza ad un mondo più stretto era in atto già prima del Covid e della guerra in Ucraina» ha commentato Giampiero Massolo, presidente di Ispi, a margine di un’iniziativa del Festival dell’Economia, sui rischi di recessione globale. «È difficile – ha aggiunto – poter dire se esiste un collegamento diretto tra la guerra, le sanzioni e quello che sta succedendo sui mercati energetici e sui prezzi. Queste tendenze erano già in atto ma sicuramente dalle ulteriori restrizioni possiamo aspettarci da un lato un’ondata inflattiva e dall’altro una contrazione produttiva». Per Massolo non bisogna indulgere a pessimismi eccessivi perché le forze economiche e lo spirito imprenditoriale sono tali da bilanciare i rischi. «Ma bisogna fare molta attenzione», ha sottolineato.
Un tema, quello della globalizzazione che rallenta, affrontato in un suo intervento in collegamento streaming dall’economista spagnolo Pol Antras, professore all’Università di Harvard dove insegna dal 2003. «Non vedo ancora in questo momento chiari segnali di deglobalizzazione, ma vedo segnali di un rallentamento della velocità della globalizzazione, in parte a causa del Covid – ha spiegato – Ci sono invece segnali molto chiari di un aumento del protezionismo e questo in futuro potrebbe portare alla deglobalizzazione». Per l’economista sul futuro della globalizzazione peseranno soprattutto aspetti istituzionali e politici come la guerra in Ucraina, meno i fattori tecnologici. Quanto all’aumento del protezionismo, secondo Antras «è facile individuare qualcuno come Trump o Bolsonaro o i pazzi che hanno indetto il referendum per la Brexit a cui dare la colpa, ma la realtà è diversa. Trump e Bolsonaro sono stati eletti perché parlavano la lingua di tanti elettori contro la globalizzazione. A causa della precedente iperglobalizzazione centinaia di milioni di persone sono finite in povertà per l’aumento delle diseguaglianze: hanno perso lavoro, reddito, potere d’acquisto, c’è stato un declino negli Usa della ridistribuzione dei compensi».
Infine, un’interessante riflessione sul ruolo fondamentale dell’innovazione per promuovere lo sviluppo economico è stata quella di Edmund Phelps, Premio Nobel per l’Economia nel 2006 e director del Center on Capitalism and Society della Columbia University, il quale ha spiegato che all’Occidente e ai suoi governi è richiesta una nuova visione, è necessario riconcepire l’economia, per far sì che le persone possano riconcepire anche la loro vita lavorativa. I governi si concentrino non solo sul focus dei successi materiali «perché l’impresa principale è quella di creare qualcosa di nuovo. Quando c’è più dinamismo – ha spiegato l’economista – la società cresce di più ma i valori sono soggetti al cambiamento. Dal 1970 in poi, l’innovazione è diminuita, prima in Germania, poi in Uk e, successivamente, in Italia, Usa e Francia. E come risultato il tasso di crescita della produttività ha rallentato fortemente a partire dal 1995. C’è stato un livello di crisi a causa della mancanza di innovazione». Il costo economico provocato dalla perdita di innovazione in Occidente, ha chiosato Phelps, è la nuova stagnazione che colpisce i lavoratori i quali credevano che la loro retribuzione sarebbe aumentata nel corso del tempo. Quella che un tempo era considerata una certezza, oggi per gran parte dei lavoratori è ormai un miraggio.