La strada era stata annunciata. Quella dei tagli e delle riforme per rimettere l’Argentina sulla carreggiata. Non tentenna minimamente Javier Milei, neo-premier argentino di ispirazione destrorsa. A dir la verità l’approccio non suona particolarmente nuovo. Da più un trentennio, la politica a Buenos Aires oscilla periodicamente tra programmi a stampo socialista e approcci liberisti, nei quali l’aggancio del peso (la moneta nazionale) a un tasso di cambio fisso col dollaro è stato già sperimentato. Ma stavolta Javier Milei vuole andare oltre. Addirittura mettere a regime una doppia circolazione senza escludere l’adozione del dollaro come unica moneta a corso legale.
L’orizzonte politico di Milei
Servirebbe a combattere l’inflazione ora altissima, a ridurre il debito pubblico e facilitare gli investimenti dall’estero, tuttavia il presidente sa che il processo non è breve, richiede preparazione e inizialmente può determinare un ulteriore affanno del sistema economico argentino. Per raggiungere la dollarizzazione il premier ha prima bisogno di incamerare risorse con un risparmio sui dipendenti statali e le privatizzazioni delle aziende pubbliche, dalla compagnia aerea ai treni, oltre a ridurre il sistema di welfare.
Dollarizzazione. Come fare
Le privatizzazioni per Milei dovranno essere vaste e realizzate il più presto possibile, poi c’è il capitolo della politica monetaria per ottenere dollari: innanzi tutto servirà chiudere le posizioni debitorie della Banca Centrale che ha già acquistato somme di valuta straniera e che al momento è a corto di risorse, dunque si penserà a liquidare una parte delle riserve monetarie per avere dollari in cambio. Nel frattempo, si spera che la riaccesa attività economica, soprattutto dei grandi player internazionali, permetterà di avviare una dinamica produttiva e il circuito valutario. Nelle fasi intermedie è molto plausibile che le due monete circolino ancora assieme e Milei crede che gli argentini possano essere invogliati a usare il dollaro.
Politica estera
Sul fronte delle relazioni internazionali, invece, Milei ha chiarito al Wall Street Journal che non intende entrare nei Brics (l’organizzazione informale che comprende Brasile, Cina, Russia, India Sudafrica ed altri) e che non considera la Cina comunista un partner strategico. Ci ha tenuto però a spiegare che scinde le alleanze geopolitiche da quelle puramente commerciali, vedendo di buon occhio i rapporti delle imprese argentine con Pechino. Stesso discorso per il Regno Unito, con cui si possono trovare spazi di collaborazione senza dimenticare la questione delle isole Falkland.
Insomma Milei persegue un Argentina fortemente allineata con l’occidente. Lo si evince anche dal passaggio in cui esprime il fermo sostegno a Israele contro Hamas e conferma l’ipotesi di convertirsi lui stesso all’ebraismo. Scelta che però, sottolinea, ora non si concilierebbe con gli impegni da presidente.
Perché il piano del dollaro non è esente da rischi
La pratica di legare una moneta ad un’altra o addirittura adottarne una straniera sul proprio territorio ha molti esempi moderni ed è ben conosciuta dagli economisti. Altri Paesi dell’America Latina come Ecuador e Salvador già usano il dollaro e in alcuni contesti scegliere una moneta diversa dalla propria, come ad esempio nelle piccole isole turistiche, può essere una cosa positiva. Ma non è sempre così.
Se Javier Milei dice di sfruttare il “biglietto verde” per risanare i bilanci, deve avere presente che anche un’operazione del genere non è esente da rischi. Perché? Banalmente la moneta bisogna acquistarla con interessi, e se la tua economia non è abbastanza solida, si finisce per non riuscire a ripagare i prestiti. Inoltre i tanti che, spinti dal clima di fiducia, avevano fatto investimenti diretti o di portafoglio sfruttando la stabilità del cambio o della valuta estera, potrebbero non ritenersi soddisfatti dagli andamenti, decidendo di ritirare il loro capitale con conseguenti squilibri. Non è raro infatti che un’economia che utilizzi una moneta differente perda competitività, anche per via del fatto che, un tasso di cambio vantaggioso, spinge i consumatori verso maggiori importazioni, mentre i prodotti nazionali vengono venduti di meno, visto anche il loro prezzo aumentato dalla moneta più forte. E siccome la moneta estera (in questo caso il dollaro) si compra vendendo la propria (il peso) non è utile calare in export. Attraverso l’export infatti gli acquirenti esteri darebbero dollari a Buenos Aires.
Discorso un po’ diverso qualora gli Usa decidessero di immettere direttamente il dollaro nell’economia argentina. Potrebbero farlo senza far pagare degli interessi (e contando solo sul fatto che la loro moneta si rafforzerebbe ulteriormente), ma questo è lo scenario più roseo su cui Milei non dovrebbe crogiolarsi.
I processi che abbiamo appena spiegato molto sinteticamente, si sono verificati negli anni passati proprio in Argentina, quando la nazione ha deciso di fissare il cambio con il dollaro. Una parità 1 a 1 ad esempio era vigente durante lo sviluppo della crisi che portava al default del 2002. La dinamica è stata studiata da un economista argentino, Roberto Frenkel, il quale l’ha riassunta in una teoria abbastanza nota tra gli esperti, denominata Ciclo di Frenkel.
Ma per Milei «non esiste piano B». Il piano B è fare bene le cose, ha spiegato a chi lo interpellava, altrimenti si tratterebbe di un compromesso, concetto che fino ad oggi ha caratterizzato una Argentina spesso sventurata. Staremo a vedere. Non tutti sono con lui, e lo si evince dalle nutrite proteste di piazza di questi giorni.