Per anni e anni in Italia si è coltivata una credenza che si è insinuata nelle pieghe del tessuto sociale del nostro Paese espandendosi a macchia d’olio ed entrando nella testa e nelle convinzioni di tutti per diventare, alla fine, un dogma. Una verità di fede precostituita, assunta e tramandata come principio indiscutibile. Il calcio è un’altra cosa, il calcio è un mondo a parte.
Non c’entra con l’economia. Non c’entra con la finanza. Non c’entra con il lavoro. Non c’entra con la sicurezza pubblica, con la violenza sociale, con la politica. Non c’entra con lo sviluppo economico. Non c’entra con gli altri sport. Ecco, in Italia, per l’opinione pubblica e per una serie articolata di ragioni, il calcio non è mai c’entrato nulla con nessuna di queste cose.
E pure di prove contrarie che sconfessano tale tesi ne avremmo anche avute a bizzeffe: dai crack finanziari e i fallimenti in tribunale alle gestioni societarie, passate sotto la lente del fair play finanziario; dal Decreto Salva Calcio alle misure “spalmadebiti” per i club, fino alle infiltrazioni della criminalità organizzata e alla violenza dentro e fuori gli stadi. E ancora, i proclama sugli stadi di proprietà e gli scandali del calcioscommesse e del doping. Con il passare degli anni il calcio è sembrato sempre più assorbito e integrato nelle dinamiche, a volte non molto edificanti, della società. Anzi a ben vedere è parso, spesso, completamente a proprio agio.
D’altronde, i club calcistici sono sempre più delle vere e proprie aziende dai fatturati importanti che impiegano migliaia di dipendenti e che generano milioni di euro di indotto, alimentando un sistema economico che vale 4,7 miliardi di euro. Numeri che fanno di questo settore una delle 10 principali industrie italiane. Ma il calcio, si sa, è soprattutto un fenomeno sociale, con i suoi 28 milioni di tifosi, 4,6 milioni di praticanti, quasi 1,4 milioni di tesserati e circa 568.000 partite ufficiali disputate ogni anno. Un fenomeno che vive al suo interno una duplice natura: da un lato quella più moderna, legata alle ragioni dell’economica e del business, e dall’altro quella ancestrale, legata alle sfera emozionale, affettiva, passionale.
Proprio questo ha permesso al mondo del calcio di arroccarsi in una torre d’avorio, ergendosi come sistema autarchico, totalmente impermeabile da immistioni esterne, spesso colpevolmente staccato dalle dinamiche della società, quasi mai sensibile alle critiche e ai tentativi di riforma interna. Ma il Covid-19 così come è stato in grado di devastare la quotidianità delle nostre esistenze, non risparmiando nessun settore economico e produttivo, è riuscito con disarmante facilità a mettere in crisi, per la prima volta seriamente, anche le stesse fondamenta del sistema calcio.
L’emergenza causata dal virus ha fatto venire al pettine tutti i nodi di un settore che per troppi anni e per un connaturato complesso di superiorità, si è sentito al di sopra delle regole. In una fase in cui tutti, chi più e chi meno, hanno cercato di rimboccarsi le maniche, tentando di ripensare e modulare le proprie attività di impresa e adeguandosi ad uno scenario ormai inevitabilmente cambiato, il calcio ha saputo solo dividersi e impuntarsi sulla questione della prosecuzione del campionato.
In questa, anche se lecita, richiesta di riprendere le attività professionistiche i club non hanno fatto mai accenno a questioni incentrate sul diritto all’attività sportiva (soprattutto a livello giovanile), sul ruolo sociale e aggregativo che ricopre questo sport (troppo spesso unica valvola di sfogo per milioni di persone), sull’importanza economica e occupazionale dell’intero comparto. Niente di tutto ciò. Il calcio ha mostrato nuovamente la sua peggior faccia, senza mostrare il ben che minimo rispetto per l’emergenza sanitaria ed economica che tutto il paese stava vivendo. L’imperativo categorico era quello di ritornare a giocare perché le stagioni calcistiche vanno onorate, lo scudetto assegnato, le coppe alzate al cielo, i premi economici e sportivi spartiti tra i club.
In questi giorni le uniche argomentazioni legate alla questione della ripresa del campionato sono state monopolizzate dalle polemiche tra squadre per questioni di posizioni in classifica (dettate dalla convenienza o meno nel ricominciare a giocare), dalla minaccia di fallimento dell’intero sistema, dal problema della non sostenibilità degli stipendi dei giocatori e dalle assurde prese di posizione e invettive contro la comunità scientifica di alcuni esponenti di questo settore. Abbiamo scoperto così che la giostra che girava senza sosta, alimentata da stipendi totalmente fuori mercato, bilanci aziendali truccati da plusvalenze riparatrici, ingegnose operazioni finanziarie di trading e di gestione, non poteva permettersi di fermarsi perché era proprio lo stesso moto (o meglio inerzia) a tenerla in vita.
È bastato interrompere l’attività per 4 mesi per mettere in ginocchio l’intero settore, per bruciare tutte le risorse che lo sostenevano e deprezzare tutti gli asset oggetto fino a quel momento di ipervalutazioni finanziarie. Le polemiche e lo scambio di battute tra club, istituzioni calcistiche, comunità scientifica e membri del Governo non rappresentano solo la triste cronaca di questi mesi. Sono invece la rappresentazione plastica dell’incapacità dei soggetti che rappresentano questo settore di partecipare alle scelte politiche e al processo democratico di questo Paese e di curare relazioni trasparenti con le istituzioni. Che è in fondo quello che fanno tutte le aziende e tutti i settori produttivi del nostro Paese: dialogare con i decisori e partecipare ai processi decisionali al fine di condividerne scelte e programmi.
Ma il calcio è un’altra cosa e per anni ha preferito snobbare le attività di public affairs, considerandole forse pratiche inutili che distraevano dal campo, dal marketing e dalla gestione aziendale. Ecco che, nel momento di maggior bisogno, l’intero sistema calcistico si è ritrovato da solo, senza nessuno che lo stesse a sentire. Così l’emergenza sanitaria ha portato a galla tutte le difficoltà e tutti gli errori di un settore che se non sarà in grado di mutare velocemente le sue regole del gioco, accettando, forse definitivamente, di modificare anche la sua natura, rischierà di dover fare i conti con una crisi inarrestabile.
Quel che è sicuro è che il mondo sta entrando in un nuovo anno zero, un’epoca in cui l’economia dovrà ricostruirsi sulle sue macerie, in cui tutti i settori produttivi perderanno le proprie certezze e in cui la società sarà stata costretta a compiere un processo di maturazione e responsabilizzazione. E certo è che nel nuovo mondo non ci sarà più spazio per il vecchio calcio.
Articolo di Valerio Carnevale pubblicato su Il Giorno Dopo