Da ieri sera l’Italia si appresta a operare un netto cambio di politica economica, in nome di una discontinuità che non ha precedenti nella storia recente del paese e che è legittimata in primo luogo dal largo consenso popolare di cui continua a godere l’esecutivo penta-leghista. La scommessa è audace: fare deficit per rilanciare la crescita e successivamente recuperarlo grazie all’aumento del Pil. Se è vero che ben pochi potevano aspettarsi l’accordo politico sul 2,4% emerso dall’ultimo Consiglio dei ministri, la decisione di travolgere sia la trincea dell’1,6 fissata dal ministro Giovanni Tria che quella del 2% stabilita informalmente dalle autorità europee risponde a una logica chiara e per certi versi comprensibile: dopo le promesse e i martellanti annunci della campagna elettorale, mostrarsi tentennanti dinnanzi alle resistenze dei boiardi di via XX Settembre o, peggio ancora, ai diktat dei tecnocrati europei avrebbe causato un danno d’immagine incalcolabile ai nuovi e ambiziosi protagonisti della scena politica italiana. In attesa di conoscere la risposta di mercati e investitori, nonché consistenza e tempi della prevedibile reazione (punitiva) di Bruxelles, i dioscuri del governo del cambiamento potrebbero aver scommesso proprio sulla debolezza relativa in cui versa la Commissione europea, giunta a sei mesi da fine mandato, per affondare il proprio spregiudicato colpo in nome di un piano di spesa pensato in primo luogo per i cittadini.
Senza contare che l’equilibrio di potere destinato a emergere dalla prossima tornata elettorale continentale (maggio 2019) potrebbe rivelarsi molto più conciliante dell’attuale verso le istanze della compagine gialloverde. La possibilità di evitare la crisi con Bruxelles, del resto, emerge già dalle parole tutto sommato accomodanti pronunciate dal commissario agli Affari economici Pierre Moscovici all’indomani dell’ufficializzazione della nota di aggiornamento al Def. Proprio per questo motivo, nei mesi a venire la vera partita fra Italia, Europa e grandi investitori istituzionali verterà soprattutto sull’impostazione da parte della leadership italiana di una profonda riforma della propria comunicazione politica. Fondata sulla capacità di accompagnare la realizzazione delle riforme promesse agli elettori alle ineludibili garanzie di stabilità nel lungo periodo. Da un lato, c’è da assicurare la crescita di occupazione, reddito delle famiglie e profitto delle imprese; dall’altra, diventa cruciale evitare che l’innalzamento del deficit finisca per bruciare sull’altare dello spread i miliardi guadagnati con lo sforamento dei parametri fiscali (il triplo di quanto prevedevano gli accordi europei sul deficit). Ironia della sorte vuole, infine, che la realizzazione degli ambiziosi obbiettivi prefissati del governo passi adesso attraverso il contributo di quell’apparato burocratico pubblico che di recente è stato criticato anche molto pesantemente da esponenti della maggioranza. Con una distribuzione di risorse come quella che sarà messa in moto dalla prossima legge di Bilancio, le possibilità di blocco, rallentamento e deviazioni delle stesse sono infatti infinite.
Alberto de Sanctis