Economia
Dazi: Trump frena con Canada e Messico. Partita europea ancora aperta
Di Giampiero Cinelli
Clemenza in cambio di soldati. Gli Stati Uniti di Trump hanno recentemente congelato per un mese il provvedimento sui dazi al Messico, in virtù di un accordo che impegna il governo della Sheinbaum a garantire 10mila unità dell’esercito al confine tra America e Messico. Per il Messico è una vittoria diplomatica, anche se sembra anche una tacita ammissione di responsabilità sulla questione migratoria; Nell’ambiente dei sostenitori di Trump c’è chi, da una parte, plaude per il risultato concreto ottenuto, in linea con gli obiettivi dell’Amministrazione, dall’altra si rammarica per aver già rivisto la politica commerciale, ambito considerato fondamentale di per sé. Trump è già debole? O forse, più semplicemente, dazi del 10% sono troppo alti e rischiavano di creare eccessivi squilibri nel quadro macroeconomico globale?
Sollievo in Canada. Gli ultimi risvolti
Novità anche sull’asse con il Canada. Justin Trudeau dopo una telefonata con Trump ha annunciato il congelamento dei dazi per trenta giorni. A pesare sulla cautela di Donald Trump probabilmente la discesa del petrolio greggio a 72,93 dollari e la rivalutazione dell’euro sul dollaro a 1.04. Nel frattempo anche la Cina risponde con i dazi nei confronti di Washington ed è pronta a farlo l’Unione Europea.
La questione europea
La frenata alla Casa Bianca non è tuttavia la garanzia che gli Stati Uniti saranno dialoganti anche con l’Europa, motivo per cui le trattative, sebbene non formali, sono già iniziate. Bruxelles si è offerta di comprare più gas liquefatto americano e di aumentare (quota parte) le spese per la difesa in cambio di un ripensamento sui dazi. In Italia Giorgia Meloni è la prima che crede nella strada dell’accordo. La premier ha definito Trump «un negoziatore», dunque non bisogna perdersi d’animo. C’è da capire però cosa Roma voglia mettere sul piatto.
Le previsioni di Svimez
Nel frattempo gli esperti italiani lavorano alle stime sulle possibili perdite se la guerra commerciale parte. Secondo Svimez, nello scenario intermedio si perderebbero 5,8 miliardi di euro di export verso gli Usa e 3,8 miliardi di Pil nazionale. Inoltre, sarebbe il Sud a pagare il conto più salato in termini di esportazioni in America (-800 milioni). Nel meridione infatti si produce parecchio dell’automotive, dell’agrifood, della farmaceutica, prodotti a cui gli acquirenti statunitensi hanno sempre dato occhio di riguardo. Ma la preoccupazione, qui su scala nazionale, è poi per le ricadute occupazionali: sempre stando alle rilevazioni di Svimez si possono perdere decine di migliaia di posti di lavoro all’anno (il 13% dell’effetto sul Mezzogiorno).
Le stime sugli svantaggi sono di ordine minore ipotizzando dazi inferiori al 10%. Mentre con le tariffe al 10%, la perdita di export equivarrebbe ad 8 miliardi (-5,4 miliardi sul Pil). In questo caso sarebbe il peggiore anche lo scenario occupazionale.
Perché non bisogna stracciarsi le vesti
Sono numeri, quelli citati, simili ad altri fatti circolare da differenti enti, e sicuramente non vanno presi sottogamba, tuttavia è sempre utile tenere a mente il quadro più ampio, nel quale l’Italia è ben sopra gli Stati Uniti nel rapporto import-export. Se anche dovessero materializzarsi le conseguenze più sfortunate, l’avanzo commerciale dell’Italia verso Washington, comincerebbe a ridursi a partire da 42-45 miliardi. Una cifra che comunque fa capire la salute di cui gode il nostro settore export.