Economia

Dazi: storia e strategia di un’arma geopolitica

09
Aprile 2025
Di Virginia Caimmi

Nel dibattito economico contemporaneo, i dazi vengono spesso presentati come misure di difesa dell’economia nazionale. Ma in realtà, la loro natura è ben più profonda. Fin dall’antichità, i dazi sono stati strumenti strategici di controllo, politica fiscale e dominazione geopolitica. Le guerre commerciali moderne, come quella tra Stati Uniti e Cina, o i dazi discussi nell’ambito della digital economy, non sono novità storiche bensì l’adattamento tecnologico e globale di logiche antichissime.

Guardando alla storia, dunque, si nota come i dazi abbiano oscillato tra barriere doganali e strumenti diplomatici. Nel tentativo di proteggere l’industria americana durante la Grande Depressione, gli Stati Uniti introdussero lo Smoot-Hawley Act nel 1930, aumentando i dazi su oltre 20.000 beni. Il risultato fu catastrofico: ritorsioni commerciali, isolamento economico e un crollo del commercio mondiale del 66%. In Italia, durante il ventennio fascista, i dazi furono trasformati in uno strumento di autarchia economica: la chiusura verso l’esterno portò a un sistema inefficiente e incapace di reggere la concorrenza. In Argentina, tra gli anni Quaranta e Settanta, una politica protezionista simile contribuì a una prolungata stagnazione industriale. Alcuni casi hanno dimostrato che, se utilizzati in modo temporaneo e strategico, i dazi possono favorire lo sviluppo. La Corea del Sud, ad esempio, li impiegò per proteggere settori emergenti mentre costruiva un’economia competitiva a livello globale. Anche il Giappone postbellico e la Cina degli anni Ottanta usarono i dazi per rafforzare le proprie industrie, ma sempre con l’obiettivo di aprirsi gradualmente ai mercati internazionali. La storia mostra quindi che i dazi non sono mai neutrali: possono rafforzare o indebolire la posizione di un Paese sullo scacchiere globale, a seconda della visione strategica che li guida.

Anche l’evoluzione linguistica del termine riflette il suo ruolo centrale nei rapporti di potere. Il termine “dazio” ha radici che rimandano alla sua funzione di strumento di controllo tra Stati, città e imperi. In greco antico, τέλος indicava una tassa o un tributo. Da esso derivano τελώνιον, la dogana, e τελώνης, l’esattore. A Roma, il dazio era noto come portorium, applicato alle merci che attraversavano i confini dell’Impero. Altri termini erano tributum, destinato ai popoli sottomessi, e vectigal, fonte permanente di entrate statali. In epoca tardo-romana e medievale, comparve teloneum, mentre datio, derivato dal verbo dare, assunse il significato di pagamento fiscale. Da qui deriva il moderno “dazio” italiano. Le fonti testuali, dai Vangeli alle iscrizioni commerciali, testimoniano la continuità di questo concetto attraverso i secoli. 

L’idea di tassare ciò che circola non si è mai limitata ai beni materiali. Ciò che oggi chiamiamo “digitale” ha alcuni equivalenti “funzionali” nel mondo antico. In Egitto e a Roma, l’accesso e la produzione di documenti ufficiali potevano essere tassati. La diffusione delle informazioni politiche era strettamente controllata, e la comunicazione era soggetta a costi e regolazioni. Il cursus publicus romano, per esempio, era un sistema postale riservato allo Stato. Anche in epoca medievale, la copiatura e diffusione dei testi poteva essere soggetta a licenze o restrizioni. Il passaggio dal confine fisico al confine virtuale non ha cambiato la logica fiscale e strategica della regolazione.

Il presente conferma che le sfide non sono poi così nuove. Nel panorama attuale, i dazi sono tornati al centro della scena. Le tensioni commerciali tra Stati Uniti, Cina, Unione Europea e altri attori globali hanno riportato in auge pratiche protezionistiche, “giustificate” da esigenze di sicurezza economica, resilienza industriale e sovranità tecnologica. A questo si aggiungono le discontinuità nelle catene globali del valore e l’emergere di blocchi economici regionali sempre più autonomi. Tuttavia la storia insegna che i dazi, se adottati in modo strutturale e permanente, spesso generano effetti collaterali negativi: isolamento, inefficienza, ritorsioni incrociate. Non si tratta di idealizzare il libero scambio, ma di riconoscere che la cooperazione regolata e il negoziato multilaterale hanno prodotto, in passato, stabilità e crescita. Gli accordi e le intese bilaterali o multilaterali hanno dimostrato che è possibile coniugare apertura e tutela, commercio e sovranità.

Gli ultimi sviluppi internazionali mostrano una crescente consapevolezza della posta in gioco. Il Presidente Trump ha recentemente annunciato dazi fino al 104% sulle importazioni dalla Cina. A valutare contromisure, ciascun Stato o blocco interessato, come l’Unione europea che valuta l’ipotesi di una tassazione delle multinazionali del digitale. In questo contesto, la Presidente Ursula von der Leyen ha sottolineato la necessità di difendere gli interessi europei con fermezza ma anche con apertura al dialogo. Henna Virkkunen, Commissaria alla sovranità tecnologica, ha ribadito l’impegno per una regolamentazione equa del digitale, annunciando anche iniziative per proteggere le infrastrutture critiche come i cavi sottomarini nel Nord Europa.  Dichiarazioni che confermano – se mai ce ne fosse ancora bisogno – che la sfida del digitale è tanto economica quanto strategica.

A ben vedere, la partita commerciale globale somiglia a una scacchiera in movimento. I grandi blocchi economici stanno giocando una delicata partita a scacchi, in cui ogni mossa commerciale ha implicazioni strategiche, diplomatiche e tecnologiche. Ma ogni fase di tensione genera, prima o poi, una necessità di sintesi. Possiamo immaginare un futuro in cui emerga una nuova generazione di accordi commerciali, più trasparenti e adattabili? Un futuro in cui il buon senso superi la logica del sospetto, e in cui la semplificazione normativa, la fiducia e la convergenza regolatoria permettano di liberare energie produttive e relazionali? Forse non si tratta di un’utopia, ma di una necessità funzionale in un mondo interdipendente. Dai porti di Atene al web delle intelligenze artificiali, i dazi hanno sempre riflesso il modo in cui le civiltà gestiscono i confini del proprio interesse. Ma ogni epoca ha anche mostrato che le chiusure hanno un prezzo, e che l’apertura regolata e cooperativa è spesso la strada più vantaggiosa, anche per i più forti. La storia offre le lezioni. La politica e la diplomazia hanno la responsabilità di saperle leggere, interpretare e attuare per il futuro delle civiltà.

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