La Sardegna occidentale è per il grande pubblico un (grande) mistero. Tutto ciò che si estende da Capo Marragiu a Capo Altano, da Alghero all’Isola di San Pietro, vive nei passaparola, in narrazioni contraddittorie e sfuggenti. Nessuno scrittore, nessuna guida, sono riusciti nella reductio ad unum. Difficile farlo per una galassia composta da tante costellazioni, ognuna con la propria ragion d’essere. Regioni diverse: Villanova, Planargia, Montiferru, Sinis, Campidano, Linas, Iglesiente, Sulcis, una lingua ma sette varianti differenti. Parole e suoni che cambiano al passaggio di ogni promontorio, paese dopo paese, curva dopo curva. Qui vivono gente di fiume, di terra, di stagno, di mare, tutti con una propria visione del mondo plasmata sugli elementi della natura. A Bosa il Temo, l’unico fiume navigabile in Sardegna, offre un porto sicuro per le barche, qui nasci pescatore. Risalendo la strada, colline ben esposte e sarai un coltivatore di Malvasia. Più avanti le pendenze più dolci faranno di te un produttore d’olio. Il difficile accesso al mare un pastore, un domatore di cavalli; la pianura alluvionale del Campidano un agricoltore; lo stagno un allevatore di muggini; nel Sulcis, un sottosuolo ricco di materie prime, fa di te un minatore. Ogni modo di pensare e vivere è poggiato sugli elementi. I nuovi miti, quello industriale, quello turistico sono messi a dura prova dal vento di Maestrale.
In questa galassia da millenni il vento che arriva da Nord-Ovest prova a spazzare via ogni cosa: conquiste, tentativi di brandizzazione, investimenti, flussi turistici, demografia. Il Maestrale dura da uno a sette giorni. Decide su tante cose. Sulla vita: dà sollievo al caldo torrido, gonfia le vele delle barche, trascina lo iodio. Sulla morte: attizza gli incendi, spaventa le mamme con le onde, accatasta la posidonia sulle spiagge, frusta i turisti con la sabbia. Impone la direzione di tante singole esistenze. Chi è forte si aggrappa al suolo, come le sughere con le trachiti e con i basalti, piegati nella direzione opposta del vento. Gli altri vengono trascinati a Sud-Est per poi essere catapultati dal Libeccio verso il Continente, verso l’Europa.
I paesi si svuotano e diventano silenziosi. «Non c’è più nessuno qui», dicono le anziane per strada, «quest’anno ne sono morti 14, sono nati solo in tre». In questa porzione di isola, forte delle sue 31mila anime, l’unica che si definisce città è Oristano, votata alla Reina Eleonora patriarca delle matriarche, capoluogo di una provincia semideserta con il più basso indice di criminalità d’Italia. Il resto è perlopiù silenzio. Ma non ci si arrende. Si fa rumore alla festa della patrona, durante le rassegne folcloristiche, con le sagre. Ogni piccola costellazione abbozza una narrazione per attirare i turisti. Bosa diventa la città dei colori, la piccola Tinnura ha riempito le facciate di murales per diventare paese dell’arte, Cabras si divide tra l’origine fenicia e i giganti nuragici di pietra, Arbus punta sull’arte dei coltelli e sul passato minerario. Altre costellazioni mettono in mostra la loro stella più brillante: la spiaggia, lo scoglio, la miniera, l’arco di roccia, il sito archeologico, la chiesa, il rito religioso, la ricetta, le onde. Ognuno avanza ad ordine sparso.
Le persone restano, come il grifone, l’astore, il gheppio, sfidando le correnti d’aria. Le comunità si adattano, sopravvivono grazie agli innesti. Si tingono di rosso come le viti di Cannonau, Bovale, Carignano, Monica. Si tingono di bianco come la Malvasia, la Vernaccia, il Vermentino. Uvaggi diventati sardi chissà come, chissà quando. Alcuni comprano case grandi per pochi soldi. Lo fa chi odia la città, chi vuole morire su un’isola, chi vuole mettere in piedi un’attività e punta sull’invecchiamento e sulla longevità della popolazione. La Sardegna occidentale è un refugium peccatorum per chi si è perso, per chi vuole stare vicino al mare, per chi vuole stare al mare, per chi vuole coltivare l’orto e vivere controvento alla periferia del mondo. Per chi vuole sparire. Per chi vuole guarire da ogni male. Panacea. Greci e latini usavano questa parola per indicare piante con virtù magiche capaci di curare ogni male. Fa questo effetto l’odore della macchia mediterranea in Sardegna a patto che ci si sappia aggrappare al suolo.
Ad aggrapparsi ci provano anche i nuovi miti. Da quando il Continente ha smesso di foraggiare, quello dell’Industria è stato sepolto in un buco nero di ammortizzatori sociali. Stessa sorte per quello minerario, tenerlo in vita costava troppo. Ci si consola con la consapevolezza di essere una cassaforte di metalli preziosi, restano là per il futuro. Per l’abbondanza si attende. Resta il mito dello Stato – retaggio della dominazione sabauda: l’impiego pubblico, i finanziamenti all’allevamento e all’agricoltura, ai giovani, i sostegni al reddito – di cittadinanza “mio Dio, mio Dio perché mi hai abbandonato?”. Resta quello del turismo: «potremmo campare solo di quello» le persone si rincuorano a vicenda, sperando di vivere con quanto guadagnato in cinque mesi. È il sogno del decennio, trait d’union tra tradizioni arcane e post-moderno: la monetizzazione grazie alla visita di un follower illustre che beve birrette al tramonto e che si tuffa dallo scoglio. Il chiringuito ancorato sulla sabbia spazzato via dalla mareggiata spinta dal Maestrale.
E sul turismo si apre una voragine. La natura di questi sardi non è quella di servire per denaro ma servire per onorare. Il lucro come peccato. «La cucina chiude alla nove e mezza» dicono lungo la costa, ma qualcuno potrebbe invitarti nella sua casa in campagna o a mangiare un pezzo di formaggio in una piazza di un paesino. La Sardegna occidentale non è hospitality ma ospitalità. L’ospite è sacro, il turista no – anche se paga un’infinità per caricare una macchina su traghetto e prenotare un volo. Il turista spende, chiede, pretende per soddisfare un proprio bisogno o un vizio. Sarà soddisfatto in base alle disponibilità del magazzino e della professionalità dei gestori (rara). L’ospite non chiede, non pretende, lascia a casa i propri desideri, non vuole che nulla cambi. Rispetta le regole della casa, mai scritte, mai dette, mai codificate. Riceve nella misura in cui chi accoglie ritiene sia giusto dare per l’onorabilità di chi varca la soglia. Spesso è più di quel che merita. L’ospitalità diventa allora competizione, tra l’ospitante e ospitato ma anche tra ospitanti, per chi più dà. L’ospitalità è costrizione e violenza, superamento del limite di quanto un corpo possa contenere in tempo (in Sardegna ha un’altra misura), in bevande, in pazienza, in cibo – che assume una propria volontà: «cherede mandigadu!» (vuole essere mangiato). Se il magazzino di un gestore potrebbe esaurirsi, è difficile che avvenga lo stesso con la dispensa dell’ospitante che diventa rapidamente un affare comunitario. Si diventa infatti ospiti degli amici di chi ospita. In alcune porzioni di Isola tutto questo è diventato servizio, in Sardegna occidentale no.
Per vivere a pieno questa fascia di mondo si deve aspirare ad essere sardi. Si spende ma non si compra nulla. Ci nasci o fai una lunga trafila da ospite. Capire, ascoltare, essere vento, roccia, cielo, mare. Imparare ad infiammarsi con poco. Amare l’odore delle sterpaglie, avere la pazienza di attendere, rinunciare ai servizi. Salutare chiunque incontri per strada sopportando il brusio di un commento subito dopo. Saper trovare e occupare il proprio posto in questo piccolo cosmo fatto di piccole galassie. Sopportare il maestrale negli occhi.
Il vento che viene da Nord-Ovest sa essere anche molto dolce, specialmente nelle notti d’estate. Travolge la nuvole e spalanca il cielo, poi molla la presa. Chi non ha mai visto il cielo in questa porzione di Sardegna ad agosto non ha mai visto cielo e non ha mai visto stelle. Non c’è bisogno di aggrapparsi. È camminare sulla Via Lattea senza paura di cadere, trafitti da centinaia di stelle cadenti alle quali destinare mille desideri. Per rispetto ne esprimerai solo uno.