Cultura

L’Europa deve diventare più forte per non morire

22
Luglio 2024
Di Ilaria Donatio

Secondo il Rapporto sul rafforzamento del mercato unico europeo, presentato in aprile da Enrico Letta, “Much more than market”, dalla crisi finanziaria in poi la crescita media dei Paesi europei è stata meno della metà di quella statunitense. Con divergenze interne ancora più marcate: in Italia per esempio, la crescita media annua pro capite nel quindicennio 2008- 2023, è stata nulla.

Ancora. Nell’Ue esistono non meno di 45 operatori mobili, contro gli otto degli Stati Uniti e i quattro della Cina. E la forte concorrenza impedisce alle compagnie di telecomunicazioni continentali di investire con la stessa velocità che caratterizza altri Paesi: le regole sono quelle di 20 anni fa, quando il mondo era totalmente diverso e l’unica strada per avere un futuro è di riscriverle totalmente.

Due esempi diversi che testimoniano come – per dirla con le parole di Ennio Flaiano – “la situazione è grave, ma non è seria”. E che l’imperativo della “nuova” Europa” sarà riuscire a ricostruirsi più forte di prima. Per non morire.

Ne hanno discusso – al XVIII Incontro del Landino presso il Monastero di Camaldoli – Micol Flammini de Il Foglio e Alessandro Barbera de La Stampa in un dibattito dedicato all’Europa del futuro

Von der Leyen e la legislatura esistenziale
Il secondo mandato di Ursula von der Leyen si apre con una legislatura che diversi esperti hanno definito “esistenziale”: certo, quella uscente non è stata meno esistenziale. La presidente della Commissione Ue ha anni durissimi alle spalle con una pandemia e due guerre (una alle porte dell’Europa) e in risposta, il bilancio – con il debito comune e gli acquisti centralizzati (per i vaccini) – può dirsi positivo considerate le minacce esistenti.

Eppure, secondo la giornalista de Il Foglio, pur trovandosi a gestire crisi internazionali e prove molto dure, von der Leyen ha dato sì prova di efficienza, negoziazione e buona amministrazione ma non di visione: “Sempre pronta a negoziare su tutto, a livello interno, questo ha prodotto dei danni: per esempio riguardo allo stato di diritto, che è stata disposta a tralasciare quando si trattava di discutere con l’Ungheria di Viktor Orbán o con la Polonia quando era governata dagli euroscettici del PiS. Far passare l’idea che, dopo tutto, sullo stato di diritto è possibile chiudere un occhio è un danno non indifferente per un’Unione basata sui valori. L’Ungheria l’ha capito, sfrutta la sua posizione, non ha paura delle minacce e sa che prima o poi sulle sue beghe antidemocratiche, Bruxelles cederà”.

Von der Leyen, dunque, avrebbe dimostrato di non sapersi immaginare un’Europa forte – “Il problema dell’Eu non è il sovranismo ma il fatto che sia molto poco sovrana” – consapevole del suo posto nel mondo, pronta a rivoluzionarsi quando è necessario.

Trump alla Casa Bianca?
Perché, al contrario, l’Europa deve prepararsi a tutto: al possibile ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca, intanto. In questi anni la presidente della Commissione si è fidata del suo rapporto con Joe Biden, del suo “America is back” pronunciato nel 2021: ma se con Biden l’America è tornata, potrebbe di nuovo chiudersi in se stessa e se questa posizione è stata difficile da gestire durante la prima Amministrazione Trump, con una guerra ai confini diventa un “rischio esistenziale”, appunto.

Benintesi, l’Europa ha fatto enormi passi avanti ma la storia e i contesti nazionali dell’Unione ne richiederebbero molti di più: dunque, argomenta Alessandro Barbera, “è ancora molto lontana da quella che dovrebbe essere per vincere le sfide di oggi”. Che hanno nomi e cognomi: Usa e Cina.

La Cina fa shopping in Europa
Uno degli esempi più paradigmatici riguarda le tecnologie verdi: i numeri ci dicono che il 2023 – nel mondo e anche in Italia – è stato un anno record per le fonti rinnovabili, peccato che l’anno scorso più del 97% dei pannelli solari installati nell’Unione siano stati precedentemente importati, innanzitutto dalla Cina che ne è la maggiore produttrice al mondo. È un problema: perché la transizione ecologica, oltre a ridurre le emissioni, dovrebbe rafforzare la sicurezza energetica dell’Europa; ma allo stato attuale delle cose Bruxelles rischia di sostituire la dipendenza da Mosca per il gas con una dipendenza da Pechino per le tecnologie verdi: batterie, veicoli elettrici, turbine eoliche, moduli solari.

Intanto, l’industria fotovoltaica europea è sull’orlo del precipizio. I cinesi hanno un vantaggio di costo che sembra imbattibile: riescono a costruire pannelli solari a 16-18,9 centesimi per watt di capacità di generazione, mentre le aziende europee sono intorno ai 24-30 centesimi per watt. In Cina la manodopera costa meno, ma soprattutto costa meno l’elettricità che alimenta le fabbriche, in gran parte fornita dal carbone; lo Stato, poi, offre alle imprese terre a prezzi di favore e prestiti a tassi vantaggiosi. In Europa è il contrario: l’elettricità è cara – la produzione del polisilicio, la materia prima dei pannelli, ne consuma tanta – e i terreni industriali pure. 

Ma i dazi potrebbero non bastare a pareggiare gli squilibri, e comunque non sono benaccetti da tutti i ventisette membri.

La difesa che manca
Per dirla con Mario Draghi, “L’Europa così com’è, muore”. Insomma, diventa marginale, e per essere competitiva rispetto agli Usa e alla Cina, deve cambiare non solo il passo ma la propria agenda.

Certo, Trump e Vance non hanno ancora vinto le elezioni di novembre e con il ritiro di Biden i giochi si sono riaperti, ma l’Europa deve avere una progettualità e prepararsi. Anche sulla difesa: “Non esiste una difesa comune perché non c’è un’industria della difesa e nessuno scudo Ue”, sottolinea Barbera. Che riflette: “Trump non potrebbe mai smantellare la Nato, ma disinteressarsene, disinvestendo sì”.

E a giudicare dalle dichiarazioni del vice di Trump, J.D.Vance (secondo cui Kiev dovrebbe smetterla di difendersi dai russi per agevolare la pace), l’Unione farebbe bene a lavorarci su: “Abbiamo bisogno che l’Europa svolga un ruolo più importante nella sicurezza”, ha detto Vance e non perché non ci interessi l’Europa, è perché dobbiamo riconoscere che viviamo in un mondo in cui le risorse sono scarse”. Non manca l’approccio pedagogico al nostro continente, cita Flammini: “Il problema con l’Europa è che non fornisce abbastanza deterrenza da sola perché non ha mai preso l’iniziativa sulla propria sicurezza. La protezione americana ha permesso agli europei di atrofizzarsi”. 

Baricentro dell’Ue spostato a Est
Negli ultimi due anni, il baricentro dell’Unione si è spostato a Est: con il motore franco-tedesco che ha smesso di funzionare, il fianco orientale europeo è diventato più determinante di quello a Ovest di cui l’Italia fa parte. Certo, i paesi dell’Est Europa sono più piccoli e poveri ma con la guerra vicina, hanno acquisito consapevolezza dei pericoli “esistenziali” che incombono. 

E l’Italia? 
Dal prossimo anno l’interlocutore del secondo debito dell’Ue non sarà più Paolo Gentiloni, il commissario uscente all’Economia: e per il ministro Giorgetti che nel frattempo deve concordare la “traiettoria tecnica” dei conti italiani dei prossimi 7 anni, questa sarà una grana in più. Oltre quella del Recovery Plan sulla cui scadenza il ministro dell’Economia italiano ha iniziato a chiedere una proroga alla scadenza (giugno 2026). Ma può “il Paese che ha detto no a von der Leyen chiedere ulteriori deroghe all’attuazione del piano per il quale ha già ottenuto svariate concessioni?”, si chiede Barbera. Occorre aspettare per conoscere la risposta. Ma intanto, a settembre, si apre un dossier molto delicato per l’Italia: la prima applicazione del nuovo Patto di stabilità. E Giorgetti ha già detto che le indicazioni della Commissione saranno rispettate.

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