Cultura

Il calcio italiano è un malato che può guarire. Intervista con Marco Mazzocchi

15
Maggio 2023
Di Marco Cossu

Un paziente malato, una macchina che arranca. Il calcio italiano pur generando ricchezza non è all’altezza delle sue enormi potenzialità. Stadi vecchi, un management non sempre all’altezza, un’allocazione non ottimale delle risorse, il problema della formazione, mali che gli impediscono di competere alla pari con altri grandi campionati europei. Non per una chiacchiera da bar ma per un consulto medico abbiamo incontrato Marco Mazzocchi, volto celebre e pietra miliare del giornalismo italiano. Però una cura esiste.

Facciamo che sei un medico. Il calcio italiano viene da te per un check up. Ti chiede «cosa ho dottore»? Tu con le lastre in mano cosa rispondi? 
«Il paziente calcio ha problemi di respirazione. L’ausculto ha colto che il battito è un po’ affannoso, ci sono poi dei problemi cardiaci e di circolazione. È un malato non guaribile con un’operazione chirurgica. Si deve intervenire con terapie, con pazienza sapendo che per guarire ci vorrà del tempo. Sempre che il paziente voglia veramente guarire». 

Consigli di affidarsi alle cure del pubblico o deve andare dal privato?
«Premessa. La politica si è servita del calcio e poco ha servito il calcio. Sento però un’aria nuova da questo punto di vista. Se dovessi comunque scegliere tra pubblico e privato andrei dal privato, magari convenzionato. II calcio regge lo sport italiano, è una delle industrie portanti del nostro Paese. Ma il calcio è anche un’industria globale e non può prescindere da interventi di persone con i soldi. Le persone con i soldi in italia però sono poche. Quindi sì al privato e sì agli investitori esteri».  

Il calcio italiano genera ricchezza ma rispetto ad altri paesi… 
«Facendo un confronto il calcio inglese per quanto riguarda i media genera un indotto dieci volte superiore al calcio italiano. L’italia produce ma potrebbe produrre molto, molto di più e, dalla pandemia, non riesce bene a mettersi in moto. È il classico esempio del macchinone che potrebbe andare in sesta marcia ma va in terza».  

Come si potrebbe produrre di più? 
«Si deve ragionare in termini di industria. Il calcio italiano sta cominciando a pensarci adesso. Stanno arrivando dei professionisti, i fondi, gente che arriva per investire. Non ci sono più i cosiddetti presidenti “ricchi-scemi” che mettevano i soldi, rovinandosi per far vincere uno scudetto o una coppa dei Campioni alla squadra della propria città o la squadra di cui erano tifosi. Il punto è che non puoi spendere più di quanto ricavi, su questo il Napoli è un ottimo esempio. Il discorso della sostenibilità è primario, la trasparenza, il principio della mutualità. I più ricchi devono aiutare i più poveri all’interno dello stesso sistema. In questo momento in Lega Calcio c’è un management che ha una visione ben precisa di quello che dovrebbe succedere ma vanno messe d’accordo venti realtà diverse che spesso ragionano ognuno per se stessa». 

Gli inglesi come ci sono riusciti?
«Nel 1992 nel calcio inglese si fece un grande discorso, sulla violenza, a causa di episodi gravi, per il fatto che a livello calcistico era un calcio minore. Da questo dibattito sono uscite fuori delle linee guida ed è nata la Premier League. Ora la Premier è una sorta di coppa del mondo. I club a un certo punto si sono guardati negli occhi e hanno detto che se il Newcastle gioca per il Newcastle, l’Everton gioca per l’Everton, il Manchester per il Manchester, non si va da nessuna parte. Ragioniamo tutti insieme e raggiungeremo grandi risultati. E lo hanno fatto».    

Tra i mali italiani c’è anche quello della qualità degli impianti
«Gli stadi di proprietà possono essere una soluzione. In Inghilterra hanno avuto due episodi. Prima Heysel poi Hillsborough. Due stragi. Hillsborough fu un incidente, era una struttura che non poteva sostenere un certo tipo di tifo, problema comune a tanti altri stadi. Il governo di allora istituì il cosiddetto “Taylor Act” nel quale si obbligavano di fatto le società a costruire o a ricostruire i propri impianti. Da quel momento è rinato di fatto il calcio inglese. Si è capito che gli stadi potevano rappresentare delle esperienze. Lo stadio poteva essere visto come un luogo non soltanto adibito esclusivamente alla partita. Poteva essere altro. È diventato un centro culturale ed economico, non solo caratterizzante la squadra ma volano economico dove consumi, spendi, acquisti. E chi guadagna? Il club. In Italia la maggior parte degli introiti sono derivati dai diritti televisivi. Ciò rende il calcio italiano schiavo. La piattaforma che acquista i diritti della Serie A avendo qualche problema di trasmissione chiede, “facciamo le partite in orari diversi per evitare sovrapposizioni?”. Giustamente. Il calcio si adegua. Ecco anche questa è una cosa che andrebbe cambiata. Non dev’essere la televisione a obbligare la serie A ma dev’essere assolutamente il contrario. In Lega si sta lavorando in questo senso. Ma senza stadi di proprietà ai livelli del inglese non ci arriveremo presto».  

Perchè da noi non si costruiscono stadi di proprietà? 
«È un paese in cui le riforme non si possono fare, i governi spesso non durano più di un anno e ci sono dei veti per qualsiasi cosa. Poi è molto difficile che uno stato centrale riesca ad imporre ad un comune, alle sovrintendenze, ai beni culturali, di costruire in un determinato luogo uno stadio. A Roma sono trascorsi dieci anni, sono stati spesi soldi per non fare uno stadio. È un discorso simile al ponte sullo stretto. Quanti soldi sono stati spesi e non c’è ancora una pietra? La burocrazia, i veti, gli interessi anche i più piccoli, incidono su questo. Ma questo è un problema che riguarda tutto il paese. E il calcio italiano fa parte del Paese. L’Italia è il paese nel quale per riuscire a fare riforme strutturali e dei lavori che da ordinari sono diventati straordinari c’è voluta la pandemia. Quindi c’è voluto il PNRR. Paradossalmente la pandemia è diventata specialmente per l’Italia un’opportunità economica straordinaria».

In questo contesto un club può imporsi? 
«La Juventus è un caso eccezionale. Gli Agnelli a Torino avevano innanzitutto la proprietà dei terreni. Uno che arriva dagli Stati Uniti un terreno non ce l’ha. E poi gli studi di fattibilità, il pubblico interesse, una serie di situazioni per cui certe cose non riesci a farle. Gli stadi di costruzione recente come Udine e Reggio Emilia non sono di proprietà, si tratta di concessioni. C’è stato inoltre l’aiuto fondamentale da parte del credito sportivo che ha concesso dei prestiti ai club. Prestiti che sono andati ad ammortizzare gli interessi delle spese per rifacimento o per la costruzione». 

Molte squadre sono in mano di investitori stranieri. Come stanno cambiando il calcio in Italia? 
«Diciamo che stanno provando a cambiarlo ma è complicato. Mentre esiste una scuola calcio allenatori – Coverciano, che sforna nettamente i migliori allenatori del mondo – non esiste una scuola che gestisca dirigenti calcistici. C’è tantissima superficialità e molte società sono affidate a dirigenti che, lasciando da parte il tema del ricambio generazionale, spesso non hanno alcun tipo di know how. Gli investitori stranieri arrivano in località che per quanto conosciute sono piccole dal punto di vista dell’organizzazione calcistica. Spesso devono fare affidamento a dirigenti locali, non formati. Gli investitori stranieri, a fatica, stanno cercando di professionalizzare un settore». 

Dottore, la formazione dei giovani come va?
«Servirebbe una profonda riflessione come fece la Germania anni fa formando le accademie nazionali a livello locale. Non c’è una formazione dei giovani reale, non c’è un engagement dei giovani con le scuole, chi insegna calcio spesso non è abilitato o non ha la cultura sportiva per farlo. Questo riguarda anche i dirigenti, vanno formati nuovi dirigenti. Va cambiata la classe dirigente attuale secondo me perché è una classe dirigente antica, che ragiona secondo sistemi non moderni. A volte poco trasparenti. Lo stiamo vedendo recentemente». 

Dirigenti un altro valore sballato
«In un’azienda non funziona così. In Italia è rimasta una visione fantozziana del dirigente. Il dirigente però deve essere un manager. Lavorare nello sport, e lavorare nel calcio, non necessita di una laurea. Si pensa che ci possano lavorare tutti. Un paradigma che va assolutamente cambiato. Ma posso confermare che a questo ci si sta pensando davvero, su tavoli importanti. Si sta cercando di stabilire che per avere certe responsabilità all’interno di club sportivi professionistici bisogna avere una formazione riconosciuta. Cosa che ancora non esiste».       

Ti chiediamo un consulto pediatrico 
«I giovani non vengono formati. Anche per un motivo economico. Molte società non investono nel settore primavera perché arrivati a un certo punto della loro crescita i ragazzi bravi vengono adocchiati da club stranieri più ricchi. Nel concreto, se sei il proprietario di un piccolo club di provincia e tiri fuori un campione e te lo rubano a 16 anni, tu club non ci guadagni un euro e non ci investi nemmeno più. Aggiungo un elemento che ci differenzia da Germania e Francia. Da noi non c’è stata un’immissione nel mercato del calcio di calciatori immigrati. Se ci fate caso, la nazionale francese prima quella tedesca poi, ha nelle proprie file pochissimi tedeschi di vecchia generazione. Ci sono molti figli di immigrati di seconda o terza generazione, che sono ovviamente cittadini tedeschi o francesi. In Italia questo accade molto meno, lo si vede nella nazionale. Per i club italiani è conveniente comprare giocatori stranieri. Pochi anni fa è uscita fuori la legge che permette ai professionisti di venire in Italia e godere di un regime fiscale inferiore rispetto ad altri paesi. Le squadre possono avvantaggiarsi di questo. La nazionale questo vantaggio non lo può avere. Questo si ripercuote nel gioco. In Italia non esiste un centravanti, abbiamo vinto il mondiale del 2006 senza un centravanti. L’ultimo centravanti forte della nazionale è stato Christian Vieri nel 2002 che si è pure mangiato un gol clamoroso contro la Corea del Sud».     

Nel calcio si gioca troppo?
«Sì. Se giochi troppo ti alleni poco, ti fa più male e giochi peggio. Ma questo non è un problema solo del calcio italiano. C’è da dire che questo è stato un anno particolare. Il mondiale in Qatar ha stravolto tutti i calendari, quindi tutto è più compresso. Personalmente mi piacerebbe la Serie A a 18 squadre, spero che prima o poi possa accadere. Meno partite, più spettacolo, meno possibilità che i calciatori si infortunino, meno overdose di partite. Ci sono giornate di campionato che finiscono il martedì e ricominciano il venerdì. I poveracci che giocano al fantacalcio sono disperati. Fare un campionato a 18 squadre significherebbe però dire che due squadre l’anno prossimo non giocano. Non è semplice». 

Risultati contradditori. La Nazionale viene da due flop mondiali. Un club italiano andrà certamente in finale di Champions. Perché queste alterazioni. 
«Il fascino del calcio rispetto ad altri sport è che non sempre la squadra più forte vince, soprattutto nei tornei brevi in cui c’è lo scontro diretto, dove la parte imponderabile può giocare un ruolo decisivo. In questo senso leggo i risultati delle italiane in coppa, ma anche l’Europeo vinto due anni fa dall’Italia. Una partita di basket difficilmente non la vince la più forte. A basket tiri a canestro 150 volte e l’altro 40, vince sempre quello da 150. Nel calcio paradossalmente tu puoi tirare 150 volte in porta, prendere 40 pali. L’altro invece tira una volta e segna. È questo il fascino vero del calcio. Il più debole non parte mai battuto. In questo senso leggo il risultato delle italiane». 

Napoli campione d’Italia può spostare la geografia dello sport verso il centro sud o è solo un fuoco d’artificio? 
«La vittoria del Napoli dimostra che è possibile vincere con una programmazione economica sana. De Laurentis lo scorso anno ha ceduto alcuni giocatori e ne ha acquistato altri fissando un tetto salariale di tre milioni e mezzo l’anno. Ciononostante ha stravinto. Sola sfortuna arrivare ai quarti di Champions League nel periodo peggiore della stagione. Il caso Napoli ci dice che si può vincere pur essendo un club sano e sostenibile. Anche se non ha uno stadio di proprietà, tra i più vetusti e meno comodi di Italia, e non investe sul settore giovanile. Che la vittoria del Napoli voglia dirci che il calcio il centro-sud verrà rilanciato ho forti dubbi. È vero, a Palermo ora c’è una realtà americana, qualche frutto lo porterà, magari la serie A tra due o tre anni, o chissà quest’anno con un po’ di fortuna ai play off. De Laurentis dovesse il Bari salire in serie A, dovrà scegliere quale club tenere. Ma il centro sud soffre di un’arretratezza strutturale che non riguarda solo gli stadi e l’organizzazione sportiva. Il calcio ricordiamolo, fa parte del sistema Italia e il centro-sud in Italia è in ritardo su tutto rispetto al Nord».     

Sei in realtà un giornalista, cos’è un giornalista se non prima di tutto un esperto di narrazioni. Quanto è cambiato il modo di raccontare lo sport negli ultimi trent’anni? 
«Sembrano passati eoni. Quando ho cominciato avevo la fortuna di entrare negli spogliatoi con il taccuino e parlare con i giocatori in accappatoio. Non mi lamento di questo perché le cose è naturale che cambino. Ora è tutto più freddo e mediato. Le società hanno il potere di controllare i loro giocatori, ai quali consentono la dignità di potersi concedere al pubblico tramite i loro profili social. Questo fa credere ai tifosi di averli più vicini. Ma non è proprio così e spesso c’è la necessità di mostrare qualche sponsor. Giocatori in televisione non se ne vedono più. Anni fa si litigava per averli in trasmissione. Ricordo che Maurizio Vallone, una tra le persone che mi ha insegnato di più nel mio lavoro, a marzo mi chiedeva quali giocatori si potessero invitare a giugno per avere una programmazione. Tutto ciò toglie poesia al calcio, toglie la profondità del racconto perché non c’è più rapporto tra giornalisti e calciatori. Sono figlio di giornalista e ricordo il legame che aveva mio padre con gli sportivi. Era amico intimo di Mennea. Oggi essere amici intimi di uno sportivo è difficile e il racconto diventa più freddo». 

Mentre sulla preparazione di giornalisti… 
«Certo, c’è molta più preparazione ma una preparazione più superficiale. Allo stadio non ci va più nessuno, ci sono giovani giornalisti che non hanno mai visto una partita dal vivo. Vedere una partita dal vivo è diverso rispetto che vederla in televisione. I giovani giornalisti non vedono quasi più le partite, vedono gli highlights, leggono i dati statistici. Per uno della mia generazione adeguarsi a questa narrazione è complicato. Ritengo però sia giusto adeguarsi alle nuove forme di comunicazione, quelle dei social, delle piattaforme orizzontali. Non possiamo rimanere indifferenti ai cambiamenti. È necessario tuttavia continuare ad essere sensibili, preservando la conoscenza e la profondità del racconto».   

Manca la libertà oggi nel ruolo del giornalista rispetto al passato?
«No. Su questo non ci sono differenze. A me non è mai successo di subire limitazioni. Tranne nei casi in cui la società ti chiamava per lamentarsi di alcune dichiarazioni, ma ho sempre avuto una libertà tale per cui mi sento di dover ringraziare la Rai per avermi sempre coperto le spalle, non imponendo mai una linea. Onestamente non vedo mancanza di libertà neanche sui giovani di oggi».

Come dobbiamo prendere l’esclusione degli sportivi dalle competizioni durante un conflitto?
«Io sono d’accordo. Siamo in guerra, è una guerra moderna che si combatte attraverso armi non convenzionali. Lo sport come la cultura e tutto ciò che fa parte della quotidianità e in uno stato di guerra approvo l’esclusione degli atleti russi e bielorussi alle Olimpiadi di Parigi. Si tratta di una forma di pressione non indifferente, per destabilizzare la Russia si trovano delle modalità per colpirla. Questo è uno dei tanti modi per farlo. Che lo sport abbia fermato le guerre è una storia antica. Anche un po’ romanzata». 

Tre attimi sportivi degli ultimi vent’anni che rappresentano meglio il tempo in cui viviamo.
«Il primo è la testata di Zinedine Zidane a Marco Materazzi alla finale del mondiale del 2006. Si tratta del primo intervento della moviola in campo, se non ci fosse stata la televisione non ci sarebbe stata l’espulsione di Zidane. La seconda immagine, che non ho minimamente apprezzato, è l’incoronazione in Qatar di Lionel Messi da parte dello sceicco del Qatar che gli impone di indossare il bisht. L’immagine fa il giro del mondo e comprende il presidente della Fifa Infantino, Messi con la tunica sulle spalle e la coppa del mondo in mano e in mezzo lo sceicco. La Coppa del mondo diventata uno strumento geopolitico, di propaganda e di sport washing. La terza è recente, proprio perché mi ci sono trovato. È l’immagine dei fuochi d’artificio a Napoli per la vittoria dello scudetto. Una festa assurda, pazzesca, meravigliosa che ci fa intendere il senso del calcio. Il calcio deve essere emozione. Questo è e questo deve continuare ad essere. Non solo un’industria».