È stata giustamente criticata da più parti la cerimonia di inaugurazione dei Giochi olimpici di Parigi.
Da un primo fronte, si è messo in luce un gratuito e greve attacco ai simboli della cristianità. E davvero non si capisce la rozzezza di chi abbia ritenuto di trasformare il valore della laicità in un’offesa al sentimento religioso dei cristiani di tutto il mondo. Operazione non necessaria, inopportuna, culturalmente povera.
Da un secondo fronte, altrettanto comprensibilmente, si è criticata la bruttezza, la dimensione cafonal e supertrash dell’evento. La storia della cultura e dello spettacolo è stracolma di provocazioni: ma il punto era la cifra artistica che le connotava. Qui la dimensione prevalente è stata quella della volgarità, vorrei dire della prevedibilità della volgarità.
Da un terzo fronte, in termini di galateo, si è evidenziata una clamorosa smagliatura nel protocollo: Emmanuel Macron protetto e al riparo, gli altri capi di stato esposti alla pioggia e al vento. Un’altra imperdonabile cafonata.
Tutto giusto, in queste tre critiche, a mio avviso. Ma manca una quarta contestazione, forse la più grave di tutte. Quanti – dal fronte “woke” e “politicamente corretto” – amano descrivere se stessi come “inclusivi” nemmeno se ne rendono conto, ma hanno trasformato il loro proclamato amore per le diversità nella volontà di imporre un’assoluta uniformità, un’omogeneità che ammette una sola dimensione. Chiunque ne sia fuori è automaticamente buttato nel girone dei reietti, degli oscurantisti, dei retrogradi. Altro che cultura delle differenze: bisogna essere tutti uguali, tutti conformi, tutti omologati. Oppure si è dannati. Sta qui l’inferno degli “inclusivi”.