Maggio 2020. In favore di telecamere, Donald Trump solleva la Bibbia stretta tra le mani, di fronte alla chiesa di St John: l’afroamericano George Floyd è morto da pochi giorni, ucciso da un agente di polizia di Minneapolis, e decine di manifestazioni di protesta animano le piazze contro l’ex presidente Usa. A lui si imputa di aver soffiato sui fuochi dell’intolleranza e dell’odio razziale. E per tutta risposta, Trump organizza una photo opportunity per lanciare un segnale all’opinione pubblica: i valori etici e religiosi, di cui i Testi Sacri sono simboli per eccellenza, sono con lui.
Ancora. Vladimir Putin porta sempre con sé una piccola croce, non salta una messa, bacia le sacre icone e intanto si scaglia contro i valori occidentali. Victor Orban ha coniato la definizione di “democrazia cristiana illiberale” per indicare la svolta autoritaria durante il Covid. Il presidente brasiliano Jair Bolsonaro si è fatto battezzare – telecamere al seguito, ovvio – nel fiume Giordano, come Gesù, iniziando così la propria scalata al potere. Le Madonne alle spalle di Matteo Salvini durante la campagna elettorale delle Europee e il bacio al rosario con invocazione alla Madonna annessa – nonostante le voci di protesta delle autorità ecclesiastiche cattoliche – valsero al leader leghista il 34% dei consensi elettorali: il suo successo più grande.
Washington, Mosca, Budapest, Brasilia, Roma.
Da un lato, le chiese si svuotano e la pratica religiosa raccoglie sempre meno adesioni; dall’altro, in quanto sistemi simbolicamente codificati, le religioni vanno acquisendo sempre più importanza nello spazio pubblico. Una sorta di graduale e inesorabile processo di dissociazione dei simboli religiosi – codificati da millenni – dal contesto originario.
In politica, l’utilizzo di simboli religiosi serve a ricostruire un consenso politico senza alcuno scambio di legittimazione con gli attori religiosi da cui questi simboli provengono: simboli presi e sfruttati per proporre ai propri pubblici rappresentazioni identitarie e senso di appartenenza.
Ma è da decenni che bibbie, rosari, icone e candele sono migrati “altrove”. Per esempio, nel marketing pubblicitario. Ne parla “Religioni dappertutto. Simboli, immagini, sconfinamenti”, recente saggio di Carlo Nardella, edito da Carrocci.
Il paradiso del caffè Lavazza, abitato da angeli e santi. Il famoso slogan dei jeans “Jesus”, “Non avrai altro jeans all’infuori di me”, la narrazione del Diluvio universale nella pubblicità per il whisky Chivas che raffigurava Noè mentre porta in salvo il distillato sull’arca. E, negli Anni ’70, Pirelli enfatizzava la qualità dei propri pneumatici attraverso una rappresentazione stilizzata di Adamo ed Eva e lo slogan: “Abbiamo trovato il paradiso terrestre”.
Anche l’industria della moda ha approfittato dei simboli religiosi e ne ha fatto man bassa. La docente americana Lynn S. Neal – che ha scritto “Religion in Vogue: Christianity and Fashion in America” – dimostra come, nella seconda metà del Novecento, l’industria della moda moderna abbia creato un vero e proprio “cristianesimo esteticizzato”, trasformandolo in un prodotto di consumo.
Per esempio, il brand siciliano di alta moda – simbolo dell’italianità di lusso – Dolce e Gabbana, sui propri capi ha ripreso i motivi dei mosaici delle cattedrali siciliane: è come se, spiega la studiosa Usa, gli stilisti abbiano spogliato dei loro significati originari i simboli dei luoghi di culto, diventandone i “gestori”.
Una riconcettualizzazione che li ha trasformati in prodotti culturali, espressione di identità e gusto personale. Ma è significativo il fatto che questi stessi simboli abbiano saputo interpretare lo spirito del tempo, riattualizzandosi in contesti diversi, con nuovi significati. E così l’eterno diventa effimero.