Cultura

Il razzismo al contrario nel rugby: il caso Mbonambi-Curry all’alba della finale dei mondiali di rugby

25
Ottobre 2023
Di Simone Zivillica

Era il 1995, gli All Blacks di Jonah Lomu scendevano in campo per la prima volta in una finale dei mondiali di rugby contro il Sud Africa di Francois Pieenar. O meglio, contro il Sud Africa di Nelson Mandela. Già, perché quello era il Sud Africa dell’apartheid, il Sud Africa del rugby giocato solo dai ricchi bianchi, perché sport nobile, elitario ed elitista. Mandela, grazie al suo carisma e a quello del capitano Pieenar, porta l’ovale nelle periferie polverose e recintate di Johannesburg, Città del Capo, Pretoria, e tutte le altre di un paese tanto grande quanto vario, socialmente, politicamente, etnicamente, religiosamente. Ci riescono, Mandela e Pieenar, e riescono anche nell’epica impresa sportiva di battere la Nuova Zelanda, imbrigliando la prima vera icona di questo sport, Jonah Lomu, appunto: un’ala di 192cm per 120kg capace di sfiorare i 10 secondi sui 100m quand’era in ottima forma, il primo esempio di un rugby moderno che stava arrivando a tutta velocità.

La storia di quella partita è raccontata magistralmente nel film Invictus, diretto da Clint Eastwood e interpretato da Matt Damon nel ruolo del capitano sudafricano Pieenar. Una storia che ha contribuito a debellare il razzismo come pratica politica strutturata in uno dei paesi che l’ha praticato più scientemente e più violentemente. Una storia di sport che si fa politica e decide il corso della Storia, con la S maiuscola. Di lì in avanti la nazionale di rugby sudafricana è sempre cresciuta di importanza e forza, vincendo altre due coppe del mondo, nel 2007 e nel 2019, proprio nella scorsa edizione. Non è stata scevra da polemiche, prima perché impiegava un gioco troppo fisico, grazie alle doti atletiche e alle masse in campo dei propri giocatori, poi, soprattutto, perché sono entrate in gioco le cosiddette quote nere. Ovvero, il governo sudafricano ha provato a imporre un numero minimo di giocatori neri da avere non solo in rosa, ma titolari nelle partite della nazionale arcobaleno. Lo stesso capitano odierno, altra icona del mondo ovale, Siya Kolisi ha espresso chiaramente il suo dissenso su questo sistema, dicendo che Mandela stesso non si sarebbe riconosciuto in una norma del genere. Il gruppo sceso in campo è sempre riuscito ad andare oltre e a concentrarsi sui risultati da portare al proprio pubblico, con cui ha stabilito un rapporto di vicinanza difficile da trovare altrove, soprattutto con rappresentative nazionali.

Il prossimo sabato, 28 ottobre, le due squadre si scontreranno di nuovo in una finale mondiale. I rapporti di forza sono equilibrati come allora e sarà una partita che molto probabilmente rimarrà nella storia di questo sport come poche altre. Di parallelismi tra questa e la sfida del 1995 si potrebbe scrivere libri interi, ma quello che salta più all’occhio è, invece, una divergenza. Se all’epoca si gioiva per aver compiuto i primi passi verso il superamento del razzismo contro i giocatori neri, oggi ci si trova indignati per un’accusa inversa, ossia di razzismo dei giocatori neri verso quelli bianchi. L’episodio si riferisce alla semifinale tra l’Inghilterra e proprio il Sud Africa. Poco oltre la metà del primo tempo, il numero 7 inglese, Curry, si avvicina all’arbitro chiedendogli cosa dovesse fare visto che un giocatore dell’altra squadra, il 2, Mbonambi, lo aveva chiamato “white cunt” – traducibile con un insulta razzista al suo essere bianco. L’arbitro gli dice di non fare nulla, che se ne sarebbe occupato lui.

In diretta non si sente nulla dal microfono dell’arbitro, ma qualche giorno dopo World Rugby, la federazione rugbistica internazionale, fa sapere di aver aperto un’indagine – ancora in corso mentre si scrivono queste righe – in merito all’accaduto denunciato anche ufficialmente post-gara dallo staff inglese. Si potrebbe stare a discutere sull’opportunità di andarsi a lamentare dall’arbitro piuttosto che risolvere una questione simile con gli strumenti che uno sport come il rugby ti fornisce, ma non centrerebbe il punto. Il punto, anzi i punti, risiedono tutti nella deriva che la spettacolarizzazione di ogni fase di gioco, soprattutto quelle in cui è coinvolto direttamente il direttore di gara. Curry semplicemente ha utilizzato la leva del razzismo, per di più al contrario, parlando a un microfono aperto in diretta, sapendo benissimo di arrecare un possibile grosso danno. Già, perché se Mbonambi sarà trovato colpevole, sicuramente gli saranno comminate giornate di squalifica, il che significherebbe saltare la finale dei mondiali – anche se questo Curry non poteva immaginarlo, visto che nel momento del fatto l’Inghilterra era in vantaggio. Una doppia beffa se si pensa che lui è il vicecapitano del Sud Africa e che nel suo ruolo è l’unico rimasto abile, in quanto gli altri sono tutti infortunati.

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Ora, la mitizzazione dei comportamenti meta-sportivi era cominciata con i microfoni degli arbitri in presa diretta: ricordiamo perfettamente le risposte ironiche e piccate di arbitri come Nigel Owens che regolava le lamentele dei giocatori ben sapendo di star facendo spettacolo mentre parlava. Ora, con il teatrino messo in scena da Curry, abbiamo raggiunto un altro livello, decisamente più grave. La sua accusa, infatti, appare sempre più debole, in quanto in Afrikaans – lingua che parlano solo i sudafricani e che, quindi, utilizzano in campo per non farsi capire dagli avversari – “wyd kant” significa “lato largo” oppure “wit kant” vuol dire lato aperto. In entrambi i casi, queste sono espressioni che si ripetono sgolandosi spesso durante una partita, soprattutto in difesa – la fase di gioco in cui si trovava il Sud Africa al momento dell’incidente – per comunicare con i propri compagni dove schierarsi. In un video – embeddato qui sopra – si sente Mbonambi ripeterlo più volte, e sembra assurdo pensare che in un raptus di violenza verbale razzista (lo ricordiamo, di un giocatore nero del Sud Africa verso un giocatore bianco inglese) il vicecapitano Springbocks abbia insultato a ripetizione l’avversario inglese. Eppure, quest’ultimo si è sentito chiamato in causa e intitolato a lamentarsi con l’arbitro – altra cosa fuori dalla rugby etiquette che vorrebbe solo il capitano abilitato a parlare con il direttore di gara.

Al di fuori del fatto in sé, che verrà risolto a breve e, si spera, prendendo in considerazione l’unica prova di audio finora uscita fuori dal campo (e rappresentata dal video di prima), rimane un forte amaro per qualcosa che si poteva evitare, soprattutto in una congiuntura speciale come quella che si sta per verificare. Sabato, infatti, sarà la riproposizione di quella storica partita, che della lotta al razzismo si fece bandiera internazionale. Oggi pensiamo a quella partita e inevitabilmente siamo in attesa di un verdetto di una giuria a porte chiuse, influenzata dalle lamentele della federazione più forte nel mondo ovale, quella inglese, che rischia di rovinare il significato di una partita e di una nazionale che va necessariamente al di là del campo. Che il razzismo abbia fatto il giro e abbia colpito proprio la nazionale chiamata arcobaleno per rendere omaggio alle tante etnie che vi convivono, che nel suo inno conta ben cinque lingue?

Onestamente sembra fin troppo assurdo per essere realistico. Soprattutto se l’accusa arriva da un ricco, bianco, giocatore inglese, nel pieno del suo privilegio di manipolare la direzione di gara. Sarà curioso capire se, come auspicabile, Mbonambi verrà valutato innocente, sarà necessariamente da imputare colpevolezza di falsa accusa a Curry. Anche lui, in questo caso, rischierà la squalifica e, quindi, di saltare la finale per il terzo e quarto posto tra la sua Inghilterra e l’Argentina?