Economia
Dal Piano Marshall al Next Generation EU: il dibattito alla Luiss
Di Ilaria Donatio
I vertici europei ma anche importanti personalità delle istituzioni italiane, hanno spesso evocato il Piano Marshall nel presentare il Next Generation e le sue ambizioni globali. “L’Europa ha bisogno di un nuovo Piano Marshall”, ha dichiarato per esempio il 14 aprile 2021 la presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen, indicando per il Next Generation UE un modello di riferimento dalla persistente carica simbolica.
La conferenza di due giorni (23-24 ottobre) organizzata dalla Luiss School of Government in collaborazione con la Sapienza, “Dal Piano Marshall al Next Generation EU e…ritorno” – come spiega nel proprio intervento ai lavori della due giorni, Emanuele Bernardi della Sapienza – ha avuto proprio l’intento di mostrare, in modo interdisciplinare, come (ri)studiare il Piano Marshall, individuando temi, questioni e problemi, possa aiutare a comprendere e a problematizzare il Next Generation EU, e viceversa.
Quagliariello: importante spendere questi soldi, ma ancora di più spenderli bene
“Il confronto tra Piano Marshall e Recovery Plan sottolinea l’importanza della storia anche nel presente, nelle scelte che facciamo oggi”, ha detto Gaetano Quagliariello, ex ministro delle Riforme costituzionali, oggi professore universitario. L’attuale presidente della Fondazione Magna Carta – introducendo il dibattito “Il Next Generation EU e il PNRR tra passato (prossimo), presente e futuro” – chiarisce che “la storia non può dirci cosa dobbiamo fare, ma può aiutarci a realizzare il scelta giusta”.
“Credo che il Recovery Plan rappresenti un passo molto importante nella storia europea, perché per la prima volta un cittadino di un paese europeo, paga per aiutare un cittadino di un altro paese europeo”.
Un’ulteriore ragione, conclude Quagliariello, “è l’Italia stessa, perché dopo dopo la firma di un patto di stabilità, i fondi del Recovery Plan sono gli unici fondi che possiamo spendere/utilizzare per il nostro sviluppo. Quindi è importante spendere questi soldi, ma è particolarmente importante spenderli bene”.
Un po’ di storia: il Piano Marshall
Il 3 aprile 1948 il presidente Harry S. Truman firmò il piano ideato dal generale George Catlett Marshall (1880-1959) per sostenere la rinascita dell’Europa. Il nome di George C. Marshall, generale dell’esercito Usa e segretario di Stato dal 1947 al 1949, è infatti sinonimo del programma di aiuti alla ricostruzione dell’Europa Occidentale dopo la Seconda guerra mondiale. Secondo il primo ministro inglese Winston Churchill il Piano Marshall fu “l’atto più disinteressato della Storia”. Solo generosità non fu, ma certo fu un’operazione economico-politica ambiziosa e senza precedenti.
Il 5 giugno 1947, in un discorso tenuto ad Harvard, Marshall dichiarò che gli Stati Uniti avrebbero fatto “tutto quanto in loro potere per contribuire al ritorno di condizioni economiche sane e normali nel mondo, senza le quali non possono essere assicurati né la stabilità politica né la pace. Il programma dovrà essere un programma comune”. E aggiunse: “I governi che opereranno per ostacolare la ricostruzione degli altri Paesi non riceveranno nessun aiuto”. Un principio che servì a fare accettare la ricostruzione dell’odiata Germania, ma accelerò la rottura con l’Urss.
Quando, come previsto, nel 1951 il programma si concluse, grazie al “turbo” d’oltreoceano la produzione industriale dell’Europa Occidentale aveva superato i livelli del 1938, l’anno precedente la guerra (e quella degli Usa raddoppiò dal 1945). Soprattutto, le nazioni europee avevano iniziato a collaborare (nel 1951 nacque la Comunità europea del carbone e dell’acciaio e nel 1957 la Comunità economica europea). Da parte loro, gli Usa si erano assicurati una corsia preferenziale per le loro merci in vista del boom economico e avevano arginato l’avanzata del socialismo reale. Quanto a Marshall, dopo aver concluso il lavoro al servizio del suo Paese, nel 1953 ritirò il Nobel per la pace.
Vassallo: Altiero Spinelli e quel dibattito federalista intorno al Piano Marshall
Il dibattito federalista sul Piano Marshall fu da subito ampio e variegato, evidenziando una pluralità di posizioni individuali e orientamenti collettivi ben più consistente di quanto comunemente ritenuto.
In tale contesto, ha spiegato Giulia Vassallo della Sapienza, “la reazione di Altiero Spinelli (il politico italiano che ha istituito il Movimento Federalista e ha sostenuto l’elaborazione di una costituzione europea, ndr) – di entusiastica adesione” – è da ritenersi “marginale” rispetto alle numerose critiche che soprattutto sulla sponda britannica, e con particolare riferimento all’ala della sinistra federalista del Labour Party, si riversarono sul Piano.
Critiche fondate principalmente sulla convinzione che il Piano avrebbe esibito una generosità non esattamente “genuina”, dietro la quale si sarebbe invece nascosta la consueta “paura del comunismo”. Senza contare, in tale quadro, le voci di quanti sollecitavano gli europei a non trascurare il pericolo della dipendenza dagli Stati Uniti, “un pericolo serio” che l’Europa avrebbe corso e che probabilmente avrebbe riguardato non soltanto gli aspetti economici ma anche “il progresso sociale e l’indipendenza politica”.
Un terreno di incontro, ad ogni modo, sembrava sussistere nell’idea dell’“Europa terza forza”. E però c’è un altro aspetto della riflessione di Spinelli che prescinde da una lettura della proposta americana in chiave squisitamente bipolare e rimanda viceversa alla fine dell’eurocentrismo e alla crisi definitiva della civiltà europea. Sulla base di tale lettura, l’offerta di Marshall veniva letta come un’opportunità che si presentava all’Europa di “salvarsi da se stessa” e soprattutto di preservare la propria autonomia rispetto alla deriva imperialista che gli Stati Uniti avrebbero potuto intraprendere a fronte di un’economia del Vecchio continente che stentava a ripartire. Un’analisi, quest’ultima, che Spinelli avrebbe peraltro ripreso anni dopo, nel Pci, giustapponendola ai rapporti tra Europa e Sud del mondo.
Ora, al di là della naturale dicotomia tra scettici e sostenitori, e anche mettendo da parte la notevole articolazione del dibattito, Vassallo ha messo in evidenza, in primo luogo, la fisionomia variegata e disomogenea della realtà federalista dell’epoca, figlia, in massima parte, delle differenti culture politiche raccolte all’interno dei vari movimenti all’epoca presenti in Europa e distribuiti tanto nel quadrante occidentale quanto in quello orientale.
In secondo luogo, ha contestualizzato la riflessione di Spinelli all’interno di un dibattito più ampio, sia per coglierne gli elementi di originalità, sia per evidenziare i punti di contatto e i riferimenti a culture e influenze diverse.
Fasone: attraverso il PNRR si aggrava la tendenza accentratrice delle politiche pubbliche
Nella comunità accademica e scientifica esistono opinioni e sensibilità diverse, come è inevitabile e bene che sia quando si discute e ci si confronta.
Secondo Cristina Fasone della Luiss, “attraverso il PNRR si aggrava ulteriormente la tendenza accentratrice nella programmazione delle politiche pubbliche, che intersecano evidentemente le competenze anche delle Regioni e degli enti locali, senza che questi siano stati propriamente coinvolti tanto nella c.d. ‘fase ascendente’ di predisposizione del Piano quanto in quella ‘discendente’ della sua attuazione”.
Non che le autonomie territoriali siano completamente estromesse dalla governance, spiega Fasone, “ma la loro partecipazione avviene o a scopi meramente informativi, dopo che le decisioni sono state assunte dal ‘centro’, oppure a mo’ di consultazione, i cui esiti sul processo decisionale e attuativo non sono noti né i pareri di regioni ed enti locali sono obbligatori o vincolanti per il Governo. Naturalmente, vi sono anche esempi virtuosi di coinvolgimento delle autonomie territoriali, ad esempio rispetto ai ‘Progetti bandiera’ regionali oppure, anche per gli enti locali, su specifici casi, come la riduzione dei tempi di pagamento da parte delle pubbliche amministrazioni.
Il principio costituzionale che dovrebbe ispirare i rapporti tra livello di governo, a maggior ragione in questo caso, visto il flusso di risorse che giunge in Italia e per la natura strategica della programmazione, è quello di leale collaborazione, sul cui rispetto, tuttavia, da più parti sono stati espressi dubbi”, conclude la docente.
Ellwood: i modelli comunicativi del Piano Marshall, quali lezioni per il NGEU?
L’intervento di David Ellwood (Università di Bologna) ha ruotato attorno ad un confronto tra i mezzi di comunicazione/propaganda messi in campo in Italia dal Piano Marshall (1948-51), e quelli proposti dal PNRR, 2021-26. Un parallelismo fondato sull’osservazione che l’Ue – complessivamente – è assai carente, oggi e sempre, sul fronte della comunicazione.
Ma in entrambi i casi, ha spiegato Ellwood, “l’Italia è stato il paese più favorito in Europa per l’intensità e la quantità dello sforzo comunicativo da parte di di chi ha azionatio i due programmi, entrambi lanciati con lo scopo di favorire un grande sforzo nazionale di ripresa ricostruzione dopo un catastrofe”.
Appare evidente, argomenta il docente, che il Piano Marshall abbia dedicato molta più attenzione a promuovere uno sforzo comunicativo di massa che non il PNRR, i cui sforzi vengono presentati in modo del tutto occasionale dai media tradizionali. Per il Piano Marshall, il 5% dei fondi generati dal Piano furono dedicati alla comunicazione; niente di simile nel caso del PNRR nonostante i fatto che l’Ue abbia un’intera DG dedicata alla comunicazione: “Entrambi i progetti sono stati economistici, tecnocratici e verticistici”. Ma solo il Piano Marshall ha lasciato “dietro di sé un mito, una narrativa che viene continuamente rievocata sia dai privati, sia dall’Autorità pubbliche, compresa la Presidente della Commissione europea quando ha lanciato il Next Generation Recovery Fund (padre del PNRR) nel suo insieme”.
Il Piano Marshall e le Scelte di Governance Italiana: un’analisi attraverso la Teoria dello Scambio Sociale
Rosario Forlenza e Flavia Canestrini della Luiss hanno proposto un approccio di “social exchange theory” all’analisi delle scelte attuate dal governo italiano in relazione al Piano Marshall. L’obiettivo è quello di comprendere le ragioni antropologiche profonde che sottendono a scelte economiche e ideologiche solo apparentemente razionali e strategiche.
Al di là delle spinte ideologiche anticomuniste e le considerazioni razionali di mercato, basate sul principio di stabilizzazione finanziaria e lotta all’inflazione, in che modo, si sono chiesti i docenti, “la percezione del piano Marshall ha influenzato le scelte di governance italiana”? E nel rispondere a questa domanda, i due hanno guardato al piano Marshall come una “sanzione positiva” che può essere compresa, parafrasando Marcel Mauss, “nell’ottica del dono”.
A partire da questo impianto teorico, Forlenza e Canestrini hanno analizzato l’atteggiamento politico dei principali membri dell’allora DC e il modo in cui questa reciprocità veniva tradotta al di fuori dei negoziati diretti con gli Americani nelle scelte effettive di governance del paese.
L’impatto del PNRR sui giovani e il fallimento della priorità trasversale
Condizionare gli interventi a favore di giovani programmati nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza italiano nell’alveo delle cosiddette “priorità trasversali” (insieme alle donne), è stato il frutto di una “visione presbite e allo stesso tempo miope di quello che può essere ritenuto l’emergere di un sempre più profondo divario generazionale che affligge i giovani di oggi”. Lo ha sottolineato Luciano Monti, docente di Politiche dell’Unione europea alla Luiss
Visione presbite che non ha colto le indicazioni e i segnali emersi durante la progettazione del piano e la successiva sua rimodulazione. Chiara era l’indicazione presente nel regolamento 2021/241 che indicava tra i pilastri del dispositivo di resilienza “le politiche per la prossima generazione, infanzia e giovani”. Altrettanto chiari i segnali dell’avvento dell’inverno demografico, con le previsioni già contenute nello Strategic Foresight della Commissione europea del 2021 di un decremento della popolazione prevista al 2050 di oltre il 5%, generata non solo dal minor numero di nascite ma anche dal minor numero di donne in età fertile.
“Elementi questi”, argomenta Monti, “che se uniti alle preoccupazioni evidenziate di recente anche nel rapporto di Enrico Letta sul Mercato Unico circa il brain drain, la fuga di cervelli, minano il futuro del nostro welfare e della competitività del paese”.
Ma anche una “visione miope”, prosegue il docente, “che nell’impostare gli strumenti di valutazione ex ante del Piano, ha sposato un modello ‘a maglie larghe’ teso a individuare le misure direttamente o indirettamente impattanti sui giovani, che ottimisticamente indicava risorse dirette per 21,9 miliardi e indirette per 25,6 miliardi, dunque complessivamente quasi un quarto del PNRR.
Sono finite così nel novero delle misure indirettamente a favore dei giovani gli investimenti sul cablaggio delle scuole, gli interventi sulla sicurezza sismica, e la formazione di dirigenti e docenti. Questo modello, unitamente all’individuazione degli interventi che avrebbero impattato su taluni comparti produttivi “ad alto indice di occupazione giovanile”, “non hanno permesso e non permettono un reale monitoraggio dell’impatto del PNRR sui giovani”.
L’aver infine “abdicato” ad una missione dedicata espressamente ai giovani, “ha impedito e impedisce una governance unitaria degli interventi pur dedicati ai giovani, come il servizio civile universale, i posti letto per gli studenti, l’orientamento attivo, le borse di studio e il finanziamento dei progetti dei giovani ricercatori”. Inefficace – in quanto velleitaria – anche la “clausola assunzionale introdotta dall’art. 47 comma 4 del DL 77 che avrebbe dovuto introdurre l’impegno ad assumere giovani per le imprese aggiudicatarie di contratti con la PA in ambito PNRR”.
“La relazione ANAC del 2023”, conclude Monti, “attesta che tale clausola è stata introdotta solo nella metà dei bandi, con un incremento rispetto al 2022 dell’1%”. Volendo infine sottoporre il PNRR allo “Youth-check”, modellizzato in Italia dal Comitato per la Valutazione generazionale delle Politiche Pubbliche (COVIGE) attivo nel corso del Governo Draghi, le risorse destinate realmente ai Giovani (definite “generazionali”) “raggiungono appena i 4 miliardi di euro, mentre le risorse potenzialmente generazionali non superano i 5 miliardi di euro” (questi ultimi con impatto stimato diretto sui giovani di un terzo, quindi 1,5 miliardi). “Lontani, dunque, dalle faraoniche previsioni sopra citate. In conclusione, un fallimento annunciato che impatta non solo sulle nuove generazioni, ma anche sulle future”.