Cultura
Cosa rimane dell’esempio di Rocco Scotellaro, il poeta sindaco
Di Gianni Pittella
La duplice ricorrenza riguardante la figura di Rocco Scotellaro – centenario della nascita, settantesimo della morte – ha un’assoluta valenza simbolica che dilata le vicende biografiche di uno dei più grandi poeti lucani molto al di là della sua terra natia di cui egli ha decantato dolcezze e amarezze: la cifra di Scotellaro , quella del poeta, del sindaco, del giovane politico è una cifra meridionale e italiana.
Ecco perché ne scrivo su The Watcher post attento alle tematiche che il lascito di Rocco ci consegna.
Voglio provare a ragionare su cosa rimane di quel lascito, di quei pensieri e di quella politica delle parole a distanza di così tanti anni.
E, dunque, voglio partire innanzitutto da considerazioni riguardanti il suo ruolo di sindaco, ruolo spesso tanto ambito quanto pregno di responsabilità, di rischi e povero di mezzi. Sono persuaso del fatto che commetterei un grave errore se proprio dalla sua breve ma intensa vicenda amministrativa non traessi un insegnamento fondamentale: è molto difficile amministrare un comune, è estremamente complesso trovare un sentiero di equilibrio tra le svariate sensibilità presenti in una collettività di paese, che per quanto ridotta in dimensioni rimane una rappresentazione di società complessa. Più volte egli ebbe modo di evidenziare le contraddizioni e le fragilità insite nella comunità paese, dove prevaleva l’invidia, il piacere della difficoltà altrui, la tenacia nel non sentirsi corpo unico che procede compatto in una stessa direzione, quella del progresso civile della comunità stessa.
C’è nella sua esperienza amministrativa la piena coscienza di fuggire da qualsiasi idealizzazione oleografica del borgo in cui prende forma un Sud bonario e seducente, distorsione di quel levismo in cui il pensiero di Rocco Scotellaro si iscrive pienamente. I paesi della nostra maiuscola Italia quasi mai sono realtà del “vivere felice”: conseguentemente, l’esserne sindaco diviene un esercizio difficile e rischioso, che espone a quell’ancestrale rabbia e rancore che sono fiumi sommersi di questo nostro territorio, lo erano tanto nel mondo contadino di allora, quanto lo sono in quello post-moderno di oggi, in cui, superati gli anni del benessere industriale (sempre e comunque vissuti di riflesso a queste latitudini) si aggiunge la frustrazione del vivere in aree di progressivo spopolamento, con tutte le problematiche che ne derivano (assenza di lavoro e opportunità di crescita personale, riduzione dei servizi, etc.). A ciò si aggiunge l’inscalfibile pregiudizio che vuole necessariamente far combaciare il nostro ruolo con un’ineludibile propensione all’illecito: a tal proposito va dunque ricordato l’arresto subito da Rocco Scotellaro l’8 febbraio del 1950, con l’accusa di concussione riferita a episodi che risalivano a qualche anno prima; vicissitudine che gli costerà l’amara esperienza del carcere, dove rimase fino a quando la Sezione Istruttoria della Corte di Appello di Potenza lo prosciolse per «non aver commesso il fatto». Una vicenda che, seppur lo sollevi da un’accusa grave sul piano giudiziario, lo segna irreversibilmente su quello umano: perché Rocco Scotellaro vive quel caso come una vendetta politica per il suo impegno incisivo nella difesa delle istanze del mondo contadino, in tempi in cui schierarsi dalla parte degli ultimi a queste latitudini non era certo compito di poco conto, perché c’erano da sfidare in primis gli interessi di una borghesia agraria particolarmente feroce.
Una ferita insanabile che lo conduce alle dimissioni da sindaco di Tricarico e al trasferimento a Portici, dove lavorerà sotto l’egida di Rossi-Doria e terminerà, da lì a breve, la sua giovane, significativa, esaltante ma dura esistenza.
Se ci pensate bene, quanto è cambiato da quei tempi? Quanto oggi rischia un sindaco…