Le canzoni appartengono a chi le canta o a chi le ascolta? Il significato delle nostre parole è destinato a rimanere lo stesso per come lo abbiamo concepito o è ammissibile uno spazio di confortevole adattamento all’esistenza di chi ascolta e di chi legge? Ed è giusto intestarsele – le canzoni fatte da altri – dedicarle a chi ci pare, cause che consideriamo degne comprese, piegando il loro significato alle nostre battaglie? Non ce ne vogliano gli autori, i detentori dei diritti e le case discografiche perché non siamo qui ad esprimere considerazioni lapidarie sull’uso giusto e ingiusto di una canzone ma a magnificare – per dirla con Bruce Springsteen – il sogno febbrile condiviso, l’allucinazione collettiva, il segreto spifferato a milioni di persone, la voce che sussurra all’orecchio del Paese intero di una canzone. Ritornelli che entrano a pieno titolo nel rito della politica – la piazza, la manifestazione, il comizio – al pari dei canti gregoriani nelle messe medievali, come omaggio, accompagnamento o sprone al potere, e diventano simbolo, intenso nell’etimologia più classica che spiega il mettere insieme e far coincidere in questo caso le persone.
Ebbene è destino di alcune canzoni diventare inni politici, indipendentemente e a volte contro la volontà dei propri interpreti primi, al punto di incarnare desideri di riscatto politico e sociale, segnare orizzonti politici, essere scelti come jingle di apertura di campagne elettorali. Non parliamo quindi delle canzoni nate in provetta per un determinato scopo – l’inno di Forza Italia, o “Meno male che Silvio c’è” del PdL, il cantautorato interessato iscritto al PCI degli anni ‘70, i motivetti di regime – ma di tutto ciò che avviene a insaputa del troubadour. All’inizio era una canzone d’amore, è stata scelta come inno di guerra, l’autore era di sinistra (come spesso accade) ma a destra ne hanno fatto un monumento, è stata scritta per una colonna sonora è diventata una memoria storica. Insomma il cantante, come accadde a Leo Gerstenzang con il cotton fioc, voleva fare della sua invenzione un determinato uso, il pubblico se l’è invece infilato senza leggere il bugiardino da tutt’altra parte. Però, ecco, funziona bene anche per quello, anzi benissimo a detta di chi ne usufruisce, e il cantante diventa l’idolo di una determinata causa senza volerlo. Noel Gallagher ad esempio mai avrebbe pensato che “Don’t Look Back In Anger” avrebbe acquisito una valenza politica e la folla avrebbe evocato la sua Sally dopo l’attentato di Manchester nel 2017 per esorcizzare quanto accaduto. E per stare a “casa nostra”, scomodando i defunti, non sappiamo se Giuseppe Verdi avesse mai pensato a Roma Ladrona quando componeva “Và pensiero” eppure Bossi la desiderò come inno della Padania. “Bella ciao” i partigiani non sapevano nemmeno che fosse ma è diventato l’inno della resistenza. “Brigante se more” la cantano gli amici del sud radicandola nella tradizione di lotta contro lo stato impositore, invece fu scritta da Eugenio Bennato per uno sceneggiato Rai degli anni ‘70. Questo l’ascoltatore al pari del calabrone non lo sa ma la canzone tocca quelle corde là e diventa a un certo punto l’inno di una causa.
Qualche settimana fa è successa la stessa cosa ad un ragazzotto della Virginia, il cantante country-folk Oliver Anthony, autore “Rich Men North of Richmond” diventata in pochi giorni inno della causa repubblicana. Il brano ha avuto un grandissimo seguito e ha totalizzato oltre 59 milioni visualizzazioni su YouTube, il brano più scaricato negli USA su Spotify e su ITunes. Quello di Oliver è un grido dall’America profonda, operaia e bianca, esclusa dalla manna della globalizzazione, in lotta con le élite di Washington: «i tuoi dollari non valgono una merda e sono tassati all’infinito a causa degli uomini ricchi a nord di Richmond», «Vorrei che i politici si prendessero cura dei minatori e non solo minorenni su un’isola da qualche parte». Detto fatto. Il grido del ragazzotto con la barba rossa, che in passato si è definito un elettore centrista, è stato scelto come sottofondo per il confronto su Fox News dei candidati repubblicani. Pezzo perfetto per rientrare nella cornice campagna vs città, popolo vs establishment, “ricordatevi anche dei bianchi poveri!”. Yes my lord, anche perché l’america conservatrice – tendenzialmente bianca – ha sempre riconosciuto parte di se stessa da un lato nel country e dall’altra nell’Appalachian music. Eh sì! perché anche i generi musicali hanno tendenzialmente i loro partiti – anche se come le ideologie la musica va a liquefarsi con la modernità. Il folk bianco a un certo punto della storia ha incontrato nel crocevia della strada il blues (musica per eccellenza nera) ed è nata la grande musica amata dalla sinistra – per capirsi, “Highway 61 Revisited” di Bob Dylan, un viaggio sull’autostrada del blues con la sontuosissima apertura di “Like a Rolling Stone”. Poi chi ascolta si fa i beatissimi fatti propri con le melodie che arrivano dove devono arrivare. Lo stesso Bob Dylan, tendenzialmente un impolitico, si è sentito infatti in dovere di precisare: «hanno definito un sacco di mie canzoni politiche, ma non sapevano neanche cosa fosse politica».
Tornando a noi, il più celebre compositore di inni a sua insaputa è un altro americano di Detroit, Sixto Rodriguez, che ha lasciato questo mondo pochi mesi fa. Portavoce della classe operaia urbanizzata, decise di sfilarsi dal mondo della musica dopo magre soddisfazioni per dedicarsi a quello dell’attivismo; anche in questo frangente non fu più fortunato e vide sfumare ogni occasione di elezione: al consiglio comunale, alla carica di sindaco e a quella di parlamentare. A sua insaputa, raggiunse invece nei primi anni ‘90 un successo straordinario in Sud Africa e le sue canzoni diventarono inni della lotta anti apartheid. Di questa storia lui seppe qualcosa solo nel 1997, ispirando il documentario Searching for Sugar Man (2012).
Esistono poi i politici che si intestano la propria colonna sonora. Puntuale arriva la levata di scudi del cantante, come accade a Ronald Reagan nella corsa presidenziale del’ ’84. “Born in the USA” è la canzone perfetta, Bruce Springsteen, elettore democratico, ça va sans dire, non ci sta e si dissocia dagli endorsement di Ronnie. Altrettante lamentele per tanti altri artisti per l’utilizzo delle loro canzoni durante la campagna elettorale di Donald Trump. Il canadese Neil Young gli fece addirittura causa, i Rolling Stones lo ammonirono, Steve Tayler degli Aerosmith affidò ai suoi legali e ad un tweet le sue lamentele «la mia musica è per cause, non per campagne politiche». Stessa sorte per il candidato alla corsa presidenziale del 2024, Vivek Ramaswamy, potenziale vice di Trump, che voleva utilizzare “Lose Yourself” come suo inno, scontrandosi immancabilmente con Eminem. «I politici devono mettere giù le mani dalle mie canzoni!», questo è accaduto anche a casa nostra quando Vasco Rossi ha sentito citato il suo “c’è chi dice no, io non ci sono” dall’allora senatore del M5S Gianluigi Paragone.
Che dire poi della passione della destra italiana per le canzoni di Rino Gaetano? Vero, Rino comunista non lo era e la politica la prendeva in giro tutta, mai però avrebbe pensato che le sue canzoni, “ma il cielo è sempre più blu” in primis, sarebbero calzate a pennello per le campagne elettorali del centrodestra. Ci pensano in questo caso gli eredi: «La politica non usi la voce, la musica, le canzoni di Rino Gaetano». Giusto o ingiusto che sia a Giorgia Meloni piaceva tanto, al suo elettorato a quanto pare pure vista la moria di artisti di destra. C’è anche chi non è geloso. Pupo dopo aver saputo che la sua “Su di noi” è stata sparata a palla durante il comizio di chiusura di Fratelli d’Italia si rassegna alla possibilità dell’uso e dell’abuso della propria creatura: «a chiunque usi la mia musica io dico grazie, perché la musica è di tutti, come l’arte». Così è allora, diritti d’autore permettendo, la musica come arriva arriva e pazienza se gli innamorati continueranno a dedicarsi “La Cura” e “Fix You” tradendo la volontà dei loro autori.