Cultura

Adolescence, più che un prodotto culturale, è un grido. Che potrebbe salvarci

10
Aprile 2025
Di Elisa Tortorolo

C’è una scena, in Adolescence, in cui una ragazza guarda in silenzio il soffitto della sua stanza. Gli occhi fissi, la musica che sfuma. Non serve dialogo: la solitudine, la rabbia, la paura fanno da sé. E raccontano senza filtri sensazioni che tanti adolescenti vivono ma che nessuno osa dire ad alta voce e chiamare con il proprio nome.

Questa recente serie Netflix, che nel Regno Unito il Premier Keir Starmer vorrebbe portare nelle scuole, è diventata un caso. Eppure, per una volta, non a causa di uno scandalo: a colpire, infatti, è la storia che racconta. Adolescence, infatti, tratta di disagio giovanile, di identità, di relazioni tossiche, di violenza, senza addolcire nulla. Ed è forse proprio per questa schiettezza, per questa sua capacità di colpire dritta, che è diventata così potente.

Nel mentre, al nostro Paese – nel quale i casi di femminicidio sono ferite inferte quotidianamente e nel quale Ilaria Sula e Sara Campanella sono morte, nel giro di 24 ore di distanza l’una dall’altra per mano di ragazzi che non hanno accettato un “no” – serve uno scossone. Qualcosa che vada oltre le buone intenzioni, per finalmente metterci di fronte ciò che – per paura, vergogna, senso di distacco – troppo spesso preferiamo ignorare. 

In questo esercizio, è la scuola a dover rappresentare il punto di partenza. Ed è da qui che nasce il nuovo progetto del Ministero dell’Istruzione, annunciato in questi giorni dal Ministro Valditara. Un piano strategico sviluppato con Indire per formare docenti, dirigenti e studenti alla cultura del rispetto. Non un semplice decalogo, ma un percorso che mette al centro la relazione, l’ascolto, la consapevolezza. Per la prima volta, l’educazione al rispetto entra ufficialmente nelle linee guida dell’educazione civica. 

Eppure, perché funzioni davvero, serve che quella parola – rispetto – perda i suoi connotati astratti. Infatti, in un Paese in cui l’educazione affettiva e sentimentale stenta ancora ad affermarsi, il rispetto non può rappresentare solo un concetto da studiare. Ha a che fare con imparare a gestire la frustrazione, a riconoscere i confini, a sentire empatia; è sapere che l’altro o l’altra non è un possesso, che il suo rifiuto non è un affronto; è capire che anche il dolore ha diritto di esistere, ma mai di trasformarsi in violenza.

Ed è qui che prodotti culturali come Adolescence possono fare la differenza. Non è solo una serie: è un grido d’allarme, una chiamata d’aiuto. Vuole parlare ai ragazzi usando la loro lingua, senza giudicarli, e mostrare loro cosa può accadere quando nessuno ascolta, quando si cresce nella solitudine e quando l’amore diventa controllo e prevaricazione. 

Proiettare la serie nelle scuole, discuterne, usarla come base per confrontarsi, potrebbe aprire spiragli. In un Paese in cui l’astensionismo giovanile la fa ancora da padrone, i nostri giovani hanno bisogno di vedersi rappresentati – anche nei loro connotati più oscuri. E di sapere che il dolore è attraversabile; che esistono alternative alla sopraffazione; che chiedere aiuto, non è sinonimo di debolezza. 

Insomma, un’alleanza tra cultura, aule e istituzioni è ancora possibile, anzi auspicabile per l’Italia. La scuola deve non soltanto essere il luogo di date e formule, ma il posto dove, senza paura di toccare nervi scoperti, accompagniamo i nostri ragazzi verso il futuro. Ogni strumento si rende necessario per questa missione. E ogni voce, anche quella delle serie tv, è alleata.

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