Ambiente
VAIA, storia di una catastrofe e una rinascita: intervista con il fondatore Federico Stefani
Di Simone Zivillica
Un progetto che unisce qualcosa che è accaduto nel passato cercando di valorizzare qualcosa che ancora non c’è e che, necessariamente, rappresenta il futuro. VAIA non è solo il nome della tempesta che nel 2018 ha raso al suolo 42 milioni di alberi, ma è anche il nome di questo progetto. Recuperare il legno degli alberi caduti che si stava svendendo o addirittura regalando pur di rimuoverlo e crearci un oggetto di design funzionale, con un richiamo chiaro alla sua provenienza e che portasse nelle case un messaggio, una metafora. Una missione impossibile compiuta da tre ex studenti universitari che hanno lasciato i loro lavori per poterla portare a termine, insieme. Un cubo amplificatore per smartphone. L’idea è questa. Il cubo è fatto del legno di quegli alberi caduti, l’amplificazione non è solo della musica ma anche del messaggio di rinascita di cui VAIA vuole farsi ambasciatore, così come la spaccatura che percorre quattro lati del cubo, a ricordare che dalle crisi nascono opportunità. Opportunità come quelle per la filiera del legno locale, dai boscaioli alle segherie fino agli artigiani e ai piccoli negozi locali. Una start-up che è partita dal suo territorio ferito e vuole andare lontano per raccontarlo e portare la sua esperienza.
Federico Stefani, uno dei fondatori, ci parla di questo progetto, e delle prossime sfide.
Cominciamo da prima dell’inizio. Cosa facevi prima di fondare Vaia?
«Sì ho girato un po’ prima di tornare a casa, dal master in Economia e Management a Ferrara, ai periodi all’estero in Giappone e Belgio, a Bruxelles, ma ho provato anche a Lisbona e Copenaghen per poi fare una settimana a Milano e sentirmi completamente fuori posto. Quindi, appunto, il master a Ferrara che mi ha permesso di essere selezionato dopo un’application alla NATO a Bruxelles per uno stage. Finiti i canonici sei mesi di stage nell’Exectuive team mi è stato offerto un posto di lavoro fisso sempre alla NATO dove sono stato un altro anno. Un’esperienza bellissima.»
Quindi sei uno di quei trentenni che ha abbandonato il posto fisso per cercare la propria strada.
«In parte sì, poi credo comunque che sia opportuno cambiare, secondo me circa ogni tre anni bisogna rinnovarsi e imparare cose nuove. Qui è successo prima, non per mio volere, nel senso che la tempesta Vaia è arrivata nel 2018 e abbiamo continuato a vedere le conseguenze – e continuiamo ancora – negli anni seguenti. Cominciammo a lavorare alla start-up di VAIA già dal 2019, io Paolo Milan e Giuseppe Adamo, facendo la spola tra i nostri lavori e appunto l’idea che stava nascendo. Prendevamo ferie e weekend per costruire il nostro sogno che cominciava a prendere forma. A fine 2020, quindi, mi sono licenziato e sono tornato a Trento, Giuseppe, che è di Catania si è trasferito qui così come anche Paolo, di Rovigo. Eravamo amici e colleghi all’università e ci siamo ritrovati a lavorare insieme per questo progetto».
Da dov’è venuta l’idea?
«L’idea è arrivata dalla tempesta, dai 42 milioni di alberi abbattuti e rimasti a terra. Quel legno, lo stesso con cui si costruiscono i migliori violini del mondo, un legno pregiatissimo, era troppo per essere processato dalla nostra filiera. Quindi strutture industriali più strutturate della nostra, principalmente quella austriaca, hanno cominciato a prelevare a zero gli alberi abbattuti, per poi rivendere il legname a venti volte il valore. Un’altra parte veniva chippata, ossia sminuzzata per poi comporre il pellet, materiale da riscaldamento. Ci siamo detti che tutto quel legno andava valorizzato, andando a raccontarne la storia e rispettandone passato e futuro. È nato così il progetto di un cubo amplificatore per smartphone, tu ci metti il tuo telefono dentro con la musica accesa e il cubo la amplifica come se fosse una cassa passiva. Del resto, il legno di quei larici avrebbe dovuto servire comunque la musica andando a creare i più bei violini che possiamo costruire, così in qualche modo verrà impiegato per lo stesso scopo. Inoltre, la metafora che mi piace sempre richiamare, quest’oggetto amplifica anche il messaggio che vogliamo mandare, ossia di rinascita e valorizzazione delle ricchezze di un territorio, il nostro, che non sono solo gli alberi, ma anche le persone che lavorano nella filiera che li rende utilizzabili per i nostri scopi.»
Un’idea di business, mi pare di capire, lontana dal charity.
«Assolutamente, noi siamo una start-up e siamo convinti che VAIA debba rappresentare un esempio di come si possa fare business e servire al bene di una società, superando il modello della restituzione e della compensazione. Facciamo un oggetto che si ispiri alla natura ma che risolva parte delle nostre cose quotidiane. Noi a questo abbiamo aggiunto il non distruggere delle risorse, ma anzi recuperare quelle già distrutte. Vogliamo creare per valorizzare quindi abbiamo contattato la forestale, le segherie, i boscaioli, gli artigiani per il recupero del legno e abbiamo pensato a un oggetto che fosse anche una metafora. Non si può pensare di fare sostenibilità e non creare un interesse economico dietro. Con VAIA oltre al recupero, abbiamo voluto insistere su una filiera locale, dove le persone possano trovare posti di lavoro. Infine, per ogni oggetto venduto, l’impegno è quello di piantare un albero che vada a rinfoltire i boschi distrutti dalla tempesta. Altre volte è necessario risistemare una zona dal punto di vista della sicurezza del territorio, oppure risistemare un sentiero. Anche perché bisogna fare attenzione, oggi va di moda piantare alberi e rischia di passare il messaggio che l’unica soluzione sia piantare alberi, ma bisogna vedere dove e come, per questo ci muoviamo sempre insieme alla Forestale.»
Quanti ne avete piantati a oggi?
«Abbiamo piantato più di 80.000 alberi. Tra questi, ci siamo occupati anche di piantare 5000 alberi a Venezia in laguna per dire che VAIA non è solo qui in Trentino, ma può essere ovunque. Abbiamo piantato 50 alberi a Roma e li abbiamo dedicati ad ogni cittadino che si sta impegnando per una cittadinanza attiva, e credo che questa sia la direzione per il nostro futuro.»
Ecco, parliamo di futuro. Quali sono i prossimi progetti?
«Il più concreto, a oggi, è il VAIA Focus, un ingranditore per smartphone realizzato con lo stesso legno recuperato dalla tempesta e la lente ottica di Fresnel: una tecnologia totalmente analogica, antica di 200 anni. Con la vendita dei Focus, abbiamo scelto, insieme al progetto Summit Foundation, di impegnarci a ridurre l’impatto ambientale legato all’attività umana nell’arco alpino. Inoltre sosteniamo la ricerca scientifica e la divulgazione sullo stato dei ghiacciai con Ice Memory, progetto internazionale finanziato dal CNR e dalla Università Ca’ Foscari e riconosciuto dall’UNESCO. Infine, recuperiamo il telo geotessile usato dalla startup Glac-Up sul ghiacciaio Presena e, una volta dismesso, lo trasformiamo nel tessuto protettivo del VAIA Focus.»
E guardando ancora più in là, cosa c’è all’orizzonte per VAIA?
«Da un lato c’è sicuramente l’idea di sviluppare nuovi oggetti da ricavare dal legno che recuperiamo. Dall’altro, però, c’è anche la volontà di emancipare il progetto VAIA dal luogo dov’è nato e dalle circostanze, tragiche e catastrofiche, da cui ha preso forma. Un primo banco di prova sarà la collaborazione che stiamo realizzando con alcuni studenti nella prototipazione di alcuni oggetti a partire dal legno degli ulivi pugliese colpiti dalla Xylella. Non è semplice perché quel legno è molto arduo da lavorare proprio per la sua conformazione fisica. Inoltre, se noi qui in Trentino abbiamo una filiera strutturata, in Puglia questa è assente, in quanto gli alberi sono da frutto e hanno un altro scopo rispetto ai nostri. C’è, poi, anche un ostacolo culturale e geografico. Spesso si tende a essere fin troppo localisti. Paradossalmente, più un qualcosa è lontano più siamo portati a dare una mano, anche solo economicamente, guardiamo per esempio ai tenti progetti di riforestazione dell’Amazzonia, mentre è più difficile far passare il concetto che a qualche centinaio di chilometri da casa c’è un’emergenza dove sono indispensabili aiuti. Infine, la nostra è un’idea che abbiamo applicato al legno dei nostri alberi perché era la cosa giusta e più prossima da fare, ma siamo convinti che ovunque ci sia un materiale di scarto si possa applicare questo modello. Penso, per esempio, alla lana, ai fondi di caffè, ai tessuti. Una signora qualche giorno fa mi ha chiamato dicendomi che nel suo paese in Liguria c’era stata una frana e mi chiedeva se noi trattassimo la roccia. Non proprio facile come materiale, ma è un’altra idea.»
In questi giorni, o meglio settimane, stiamo assistendo a un altro disastro naturale, quello delle alluvioni in Emilia-Romagna. È evidente come la frequenza di eventi climatici severi stia aumentando a un passo che pone molte difficoltà e sfide. VAIA, nel suo piccolo, ha dato una risposta culturale e ideale, ma con dei riscontri tangibili e concreti. Che consiglio ti senti di dare alle popolazioni colpite dalle alluvioni?
«Basta pensare agli ultimi 24 mesi. La tragedia di Ischia, il distacco del ghiacciaio in Marmolada, la siccità prolungata e quindi le alluvioni. Quello che mi viene da dire, lungi da me ovviamente sostituirmi a chiunque debba prendere decisioni, è che la classica dialettica accusatoria di chi c’era prima e chi c’è adesso è semplicemente controproducente. Su questo, le immagini di Bonaccini e Meloni insieme tra i cittadini colpiti dalle alluvioni è qualcosa di molto positivo. Quello che serve ora è quello che si sta vedendo tra i social e in Tv: centinaia di ragazze e ragazzi che mettono le calosce e imbracciano la vanga. Finché non si metterà a posto la situazione non si potrà pensare al dopo. Se a quelle catastrofi naturali che citavo prima ci aggiungi la crisi economica, l’impennata dell’inflazione e quella dei tassi d’interesse, la guerra in Ucraina, capisci bene che l’unico modo per andare avanti è cercare di interpretare la nostra società in continuo cambiamento per poterci adattare al meglio. Quello che, forse, insegna la nostra esperienza è questo. Noi non compensiamo per il danno che arrechiamo all’ambiente di tutti, la nostra mission è quella di riallocare il 65% delle nostre entrate sul territorio, dalla piantumazione di nuovi alberi alla ricerca di fornitori sulla filiera e sull’artigianato locali. Come dicevo, il nostro modello può essere applicato ovunque ci sia del materiale da recuperare. L’altro giorno ho visto dei meleti alluvionati, e molti di quegli alberi non saranno più utili alla produzione e potrebbero essere utilizzati per un progetto come quello dei nostri VAIA Cube. Come dicevo, però, questo non è il momento di pensare a come utilizzare gli scarti del disastro, questo è il momento di dare una mano, fisicamente ed economicamente, a tutti i livelli necessari. Con questo voglio dire anche che ho paura che non serva dire all’infinito che il cambiamento climatico ci ha portato a questi eventi e che quindi dobbiamo protestare facendo capire che abbiamo finito il tempo e che siamo l’ultima generazione che abiterà questa terra. Questi eventi ci sono già stati, anche più gravi, il problema è la frequenza con cui accadono, è lì che incide realmente il cambiamento climatico. Ecco quindi che su queste tematiche le soluzioni vanno cercate perché siano razionali e il più possibili lontane dalle ideologie.»
Un’ultima domanda sul rapporto dell’uomo con la natura, che prende forma con il vostro progetto. Recentemente si è parlato molto di questo rapporto in relazione alla morte di Andrea Papi, il runner attaccato e ucciso da un orso proprio in Trentino. Chi attacca la presenza dell’orso, chi l’umano che non deve spingersi nel territorio degli animali selvatici. Tu, da trentino, come hai vissuto quella tragedia e che idea ti sei fatto?
«È un tema estremamente complesso. Non credo che nessuno abbia voglia che l’orso sia ucciso per una mera vendetta medievale, credo invece che si sia sempre alla ricerca di soluzioni immediate, che purtroppo ogni volta finiamo per ribadire che non esistono. Quello che c’è da capire, al di fuori del Trentino, è che qui non c’è la civiltà e poi il bosco separati e distanziati. Qui è tutto insieme, esci di casa e il bosco è già lì. È evidente, quindi, che una modalità di convivenza dev’essere trovata. Ho paura che il problema sia anche comunicativo. Mi spiego: nessuno alza barricate per il controllo dei numeri degli esemplari di camosci, cervi, cinghiali, stambecchi. Sull’orso sì, ed è fin troppo evidente che c’entri come l’orso ce lo siamo sempre rappresentato a nostro piacere, non voglio dire fiabesco ma quasi. Ecco, bisogna capire che in Trentino, per una lunga serie di ragioni, ci sono troppi orsi, perciò una soluzione va trovata. Quello che mi auguro è che non sia una soluzione per prendere consensi e nascondere il vero problema sotto il tappeto. Come sull’ambientalismo, bisogna smetterla di far diventare ogni tematica un problema ideologico.»