Ambiente
Intervista a Marco Grasso autore di “Tutte le colpe dei petrolieri”
Di Luca Grieco
The Watcher Post ha intervistato uno dei due autori di “Tutte le colpe dei petrolieri” (Piemme), il Professor Marco Grasso che approfondisce la responsabilità dell’industria petrolifera sull’impatto climatico.
Professore, se la gran parte del mercato dell’Oil&Gas è oggi controllato dalle National Oil Companies, è del tutto scorretto affermare che siano gli Stati stessi ad avere un ruolo quasi primario nell’ideazione dei modelli energetici più che le industrie petrolifere? Meglio ancora: è irragionevole immaginare un mutuo interesse nel perseguimento delle politiche energetiche così come declinate fino a 10 anni fa?
Le National Oil Companies fanno la politica energetica degli stati. Discorso a parte per quelle presenti nei paesi ricchi di petrolio, che sostanzialmente vanno alla ricerca di mercati di sbocco. Poi ci sono le NOC dei Paesi che non hanno petrolio e che vanno alla ricerca di giacimenti, come quelle cinesi. Quindi sì, si può dire che gli Stati siano dietro queste compagnie e anche dietro le compagnie private: sostanzialmente gli Stati hanno l’obiettivo della crescita e il modo più semplice e meno costoso per raggiungerla è con i combustibili fossili. È difficile immaginare che l’autorità politica limiti l’attività petrolifera, a meno che questo stimolo non venga dalla società, ma ci vuole una pressione piuttosto forte, come quella che si sta riscontrando, soprattutto in Occidente.
L’Europa conta circa un 9% delle emissioni totali globali e importa il 58% della propria energia, la cui larga parte è prodotta tramite Oil&Gas. Per combattere il cambiamento climatico non dovrebbero esserci cambi di prospettiva nei Paesi esportatori?
Bisogna tenere in conto che molti di questi petro-Stati hanno come principale fonte di finanziamento della macchina statale l’industria petrolifera. Le National Oil Companies svolgono una serie di funzioni sociali, a volte, che costituiscono una parte importantissimi di Paesi: ad esempio, in Algeria finanziano il sistema dell’istruzione. Quindi è difficile pensare che gli Stati possano emanciparsi subito dalle compagnie, ma ci sono segnali interessanti. Ad esempio, la Cina, del tutto inaspettatamente, ha affermato che diventerà carbon neutral nel 2060 e quando gli Stati autoritari prendono un impegno di solito lo rispettano. Noi poi siamo abituati a pensare alle emissioni in base alla produzione, ma se adottassimo la cosiddetta contabilizzazione consumption-based, molte delle emissioni cinesi sarebbero imputabili ai paesi occidentali: noi facciamo fare tutto a loro, fruiamo dei beni prodotti da loro e lasciamo a loro le emissioni associate ai processi produttivi. Noi facciamo molto offshoring delle emissioni.
“L’età della pietra non finì perché finirono le pietre, l’età del petrolio non finirà perché finirà il petrolio”, pluricitata massima di Ahmed Zaki Yaman. Voi stessi, nel libro, affermate che una delle possibili chiavi di lettura della trasformazione “Green” delle industrie petrolifere sia stato l’avvento dell’energia alternativa. Quale sarà il peso specifico delle stesse industrie nei prossimi decenni e a transizione compiuta?
Le grandi industrie petrolifere private, soprattutto europee, hanno dichiarato che diventeranno net-zero carbon al 2050. Questo vuol dire che puntano molto sulle tecnologie del sequestro dell’anidride carbonica (tecnologie ad emissioni negative). Detto ciò, queste compagnie prevedono comunque forti investimenti nei combustibili fossili almeno nei prossimi dieci anni, soprattutto nel gas. Quest’ultimo è spacciato come pulito ma non lo è, perché l’estrazione del gas genera perdite di metano, un gas che ha un effetto serra molto più potente della CO2. Loro, ad esempio, cominciano a non volersi chiamare più compagnie petrolifere, ma compagnie “energetiche”. C’è da dire che non è scontato che le tecnologie su cui puntano siano sufficienti. Le NOC, d’altro canto, non si sono mosse per nulla perché sono protette da Governi e anche da opinioni pubbliche ancora meno combattive. La cosa di cui hanno più paura le compagnie private sono appunto i movimenti sociali che delegittimano l’utilizzo dei combustibili fossili perché in questo modo gli verrebbe revocata la “social licence to operate”: una sorta di mandato che noi gli abbiamo implicitamente dato per operate con prodotti dannosi come i combustibili fossili.
E’ razionale o velleitario immaginare un imminente futuro senza l’Oil&Gas?
Senza l’Oil&Gas non si può andare avanti perché ci sono dei prodotti e servizi che non possono prescindere da questa risorsa. Ma pensiamo alla produzione di energia, che può farne a meno. Il solare, ad esempio, è oggi la forma di energia più economica che l’umanità abbia mai avuto: costa meno produrre un MGW di energia col solare che con qualsiasi altra fonte. Il problema è infrastrutturale, ma in qualche decennio può essere superato.
Cosa si aspetta che gli USA possano rientrare negli accordi di Parigi. Cosa vi aspettate dall’era Biden?
Biden dispone di una piattaforma sui cambiamenti climatici abbastanza ampia e articolata. Ha dato un ruolo di spicco a John Kerry, un profondo conoscitore degli accordi internazionali relativi ai cambiamenti climatici. Sono fiducioso che possa essere un momento di svolta positivo.