Ambiente
Transizione ecologica, il caso Sudafrica tra istanze e realtà
Di Giampiero Cinelli
Alla Cop27 di Sharm el-Sheikh si parlerà molto di aiuti ai paesi più poveri per favorire la loro transizione ecologica. Questo un punto molto importante il cui dibattito non sembra agevole e c’è grande attenzione su ciò che ne scaturirà alla fine della conferenza. Ma il problema di una transizione troppo lenta non riguarda soltanto le nazioni molto arretrate. Quando si parla di carbone sono in molti a pensare alla Cina. Eppure non è l’unica ad esserne soggiogata. E il caso del Sudafrica ben dimostra l’urgenza di finanziamenti alle nazioni povere del mondo se si vogliono centrare gli obbiettivi di Parigi.
Secondo i dati IEA, solo il 7% dell’energia sudafricana viene da fonti rinnovabili. Per la gran parte, l’energia elettrica viene prodotta in vecchie centrali a carbone. Vecchie, appunto. Spesso con problemi di manutenzione. In Sudafrica c’è un blackout di 4.000-6.000 MW ogni giorno, circa il 10% della domanda.
Ora qual è il punto? Il Sudafrica è un Paese in via di sviluppo (è membro del Brics) ed è il più avanzato fra i Paesi africani. Eppure come può decarbonizzarsi se a fronte di una crescente domanda di energia, dettata da un’economia emergente e da stili di vita più simili ai nostri, non è in grado di assicurare una sicurezza energetica ai propri cittadini?
Il presidente Cyril Ramaphosa ha presentato un piano quinquennale di transizione a fonti di energia più “green”. Ma costa 84 miliardi di dollari, quando a Glasgow era stato proposto un accordo per 8,5 miliardi di finanziamenti da parte dei Paesi ricchi. Accordo su cui ancora si negozia, ed evidentemente ben distante dal conto presentato dal presidente sudafricano.
Di fronte a questo, il Sudafrica ha scoperto di avere grandi riserve di gas metano, fonte fossile. E punterà su quelle, probabilmente, per porre rimedio alle carenze di elettricità e proseguire così il suo sviluppo economico. Anche per questo è importante che le nazioni più ricche aiutino finanziariamente anche il resto del mondo, che altrimenti va per la sua strada, ritardando la decarbonizzazione.