Ambiente
Nucleare, Minopoli: “L’energia a cui l’Italia non può rinunciare”
Di Luca Grieco
Umberto Minopoli, manager di Finmeccanica negli anni ‘90, nonché Consigliere del Ministero dell’Industria durante il Governo D’Alema, è oggi Presidente dell’Associazione Italiana Nucleare. Ha recentemente scritto un libro che sfata miti e leggende nefaste su un tipo di energia che genera spesso divisioni: il nucleare. Considerando anche l’enfasi posta sul tema nell’ultima campagna elettorale, abbiamo deciso di porgli qualche domanda per comprendere lo stato dell’arte e analizzare eventuali prospettive.
Presidente, il suo ultimo libro “NUCLEARE. RITORNO AL FUTURO – L’energia a cui l’Italia non può rinunciare” reca un titolo molto evocativo. Partiamo da lì: perché “ritorno al futuro” e, soprattutto, perché l’Italia non potrebbe rinunciare a questo tipo di energia?
«L’energia nucleare è stata la scoperta straordinaria della metà del secolo. Poi, dopo un quarantennio di sviluppo alterno (dovuto all’alternarsi di fasi, in una continua competizione con le energie fossili) ha conosciuto, tra la fine degli anni 80, dopo Chernobyl, una fase di stasi costruttiva. Che ha fatto parlare di un declino del nucleare, di un suo abbandono nelle politiche energetiche dei paesi avanzati. In realtà si trattata di una percezione sbagliata. La tecnologia era impegnata in un grande sommovimento di ricerca, innovazione e cambiamento. Che si è tradotta, a partire dai primi anni 2000, nella varietà dei modelli di terza generazione che oggi sono sul mercato. Si tratta di centrali di larga potenza (in media di 1000 MW) che costituiscono la quasi totalità delle 54 nuove centrali in costruzione nel mondo. L’Italia è l’unica delle economie industrializzate, da 35 anni, fuori dalla tecnologia nucleare. La scelta della decarbonizzazione prima e la crisi energetica poi, hanno imposto a tutti i paesi sviluppati una traiettoria della transizione energetica che fa leva sullo sviluppo congiunto delle energie no carbon: quelle rinnovabili, in specie solare ed eolico, che hanno il vincolo dell’intermittenza e le altre tecnologie che hanno la possibilità di generare l’energia in modo stabile e continuativo. L’energia nucleare è tra queste. Nel mix elettrico green e low carbon, entro il 2030 e il 2050 la quota dell’energia nucleare (oggi al 10% nel mondo e al 25% nei paesi avanzati) è destinata a mantenersi e incrementarsi».
Se pensiamo alla sindrome NIMBY (not in my backyard), uno degli accostamenti più inflazionati è il nucleare. Sempre nel suo libro, lei fa riferimento al fatto che “il vento sta cambiando”. Senza alcuno spoiler, ci può dire se l’opinione pubblica italiana sta evolvendo in qualche modo?
«Ci sono state indagini e rilevazioni che attestano un cambiamento di opinione sul nucleare. Un sondaggio, di recente pubblicazione, dava intorno al 49% la quota dell’opinione favorevole, in Italia, al nucleare. Del resto, non sarebbe serio e razionale fissare le opinioni delle persone in Italia ai risultati dei referendum di 35 e 11 anni fa: epoche diverse, tecnologie diverse, contesti diversi, esigenze diverse. Non mi illudo che sarebbe privo di contrasto, oggi, un nuovo programma nucleare italiano. Ma, certo, gli argomenti a sostegno sarebbero di assai più facile comprensione e accettazione. Specie se anche l’informazione e la comunicazione, come sta già avvenendo, adottino un approccio di verità, oggettività e abbandono degli bias informativi che, specie in Italia, distorcono le considerazioni sul nucleare civile».
Nella (superficiale) narrazione comune, al nucleare viene associato spesso l’emblematico “fusto radioattivo”. Quello delle scorie nucleari è un argomento molto caro agli oppositori dell’utilizzo di questo tipo di energia. Ma esiste davvero un problema legato ai rifiuti radioattivi?
«Vede, già l’espressione di “fusto radioattivo” è uno dei principali bias cognitivi e comunicativi sull’energia nucleare. “Radioattivo” non è il fusto, ma il suo contenuto, immobilizzato entro matrici di vari materiali che rendono quel contenuto immobilizzato, sigillato, impossibilitato, per ragioni di fisica e di chimica, ad ogni movimento (la radioattività è solo energia in eccesso, non ha nulla di esplosivo o di incontrollabile). Il “fusto”, in questo senso, è del tutto innocuo e privo di ogni impatto esterno. Eppure, nell’immaginario passa come “fusto radioattivo”. È la metafora della paura delle “scorie radioattive”. Chi sa, innanzitutto, che “scoria” designa ogni forma di rifiuto, scarto, residuo di processi, chimici, energetici e industriali, che riguardino lavorazione di minerali o materie primarie naturali? Quindi non solo i rifiuti nucleari? Semmai c’è una differenza tra le scorie: quelle nucleari sono trattate, condizionate, immobilizzate e, infine, smaltite entro barriere (i famosi “fusti” di cui parlavamo e non solo) che garantiscono che siano sempre, in ogni momento e per tutto il tempo necessario, in condizione di non aver alcun impatto per uomo e ambiente; le scorie non nucleari, invece, sotto forma di fumi inquinanti, composti, ossidi, veleni atmosferici, le ritroviamo libere di essere immesse in aria o di essere smaltite in discariche comuni. Un “problema” delle scorie, non si capisce, quale sia. L’industria nucleare tratta e gestisce da 70 anni le scorie prodotte nei propri processi. Che non sono solo quelli energetici delle centrali, ma quelli della ricerca, della medicina, dell’agricoltura, dell’industria, di tanti settori e processi che fanno uso di isotopi radioattivi. Si usano, da 70 anni, tecnologie di trattamento e smaltimento delle scorie radioattive. È davvero difficile, per persone appena informate, capire in che cosa le “scorie” nucleari costituiscano un problema irrisolto».
Oltre a quello delle scorie, un altro dei motivi che sostengono il “no” al nucleare è legato al tema della sicurezza delle centrali, tornato in auge per altro anche a causa del conflitto russo-ucraino…
«La guerra ucraina ci ha, drammaticamente, ri-familiarizzato con l’incubo dell’olocausto nucleare. Che dall’inizio degli anni 60 non si era più riaffacciato nella realtà del mondo. Le minacce di Putin di ricorso all’arma atomica si sono sovrapposti con i pericoli di incidenti agli impianti nucleari civili. Si è creato un corto circuito comunicativo devastante. La comunicazione, anche qui, non ha aiutato. È stato necessario, per gli esperti tornare a chiarire, all’opinione pubblica confusa, nozioni elementari, che pensavamo fossero alle spalle. In primis la differenza tra bomba atomica e centrale nucleare. Che un impianto nucleare non possa esplodere, in nessun caso, come una bomba, per ragioni fisiche, costruttive e di natura del combustibile utilizzato è stato necessario tornare a spiegarlo. Che il massimo incidente ipotizzabile in centrali operative o inattive (Chernobyl), colpite intenzionalmente o per effetto di incidenti militari o manomissioni, in un teatro di guerra come quello ucraino, sia Il “rilascio di radioattività” in atmosfera. Che può, a seconda della sua entità, rivelarsi catastrofico a scale diverse, ma niente che sia paragonabile all’olocausto atomico. Invece, la copertura mediatica della guerra ucraina non sempre ha aiutato a rassicurare l’opinione pubblica. Che per fortuna, devo dirlo, sé dimostrata più matura di certi commentatori, più a conoscenza delle abissali differenze tra nucleare militare e centrali civili. Al punto che, incrociando le dita, dopo oltre 250 giorni di guerra, si vede che le centrali nucleari ucraine, più che fonti di pericolo, sono infrastrutture talmente importanti che i russi tendono ad estorcere illegalmente alla proprietà ucraina».
Ma in effetti quanto è razionale la paura che un reattore nucleare possa danneggiarsi, in un certo momento della sua attività?
«Lei pone, giustamente, un altro dei bias conoscitivi sulle centrali nucleari: può guastarsi un reattore nucleare? Si tratta di macchine, manufatti umani: non sarebbe serio postulare una sorta di perfezione. Ma il rischio del “guasto” si pone in maniera assai diversa, in un impianto elettronucleare, rispetto ad altre attività energetiche. Una centrale nucleare si compone di due grandi parti: quella convenzionale (in cui il calore, trasformato in vapore, alimenta una turbina che genera elettricità), uguale ad ogni altro impianto energetico termico; quella del reattore, in specie il suo core, dove avvengono i processi nucleari che generano il calore. È qui, ovviamente, che la probabilità di guasti o incidenti deve essere minimizzata. Perché è questa parte dell’impianto che “tratta” radioattività. Ebbene, l’assesment risk, la valutazione e la minimizzazione preventiva dei rischi incidentali nella vita operativa del reattore, fin nei dettagli più profondi dell’attività del reattore- il core e i sottosistemi strategici (circuiti di refrigerazione, sistemi di alimentazione, risposte automatiche al guasto) – è il cuore della progettazione, del licensing e della costruzione di una centrale. E quella a più alto investimento tecnologico, di qualità dei materiali, di digitalizzazione. Non è una novità. Qualcosa dovrebbe dire l’altissima affidabilità, mostrata in 70 anni di esercizio, di ben 442 impianti nucleari operativi nel mondo. E questa “affidabilità” della sicurezza dei reattori progredisce in modo incrementale. Basti dire che un impianto di ultima generazione viene licenziato oggi con una probabilità dichiarata di guasti “gravi” al reattore- una sorta di garanzia del costruttore all’acquirente del reattore- che si avvicina a un numero sbalorditivo (milioni e milioni) di ore-annue di funzionamento “senza guasti”. Quando si parla di centrali “costose” bisognerebbe sempre tener conto di questo trade-off tra tecnologia, sicurezza e affidabilità di un reattore nucleare».
C’è un po’ di “confusione terminologica”, come lei scrive, tra reattori di terza generazione, nuova generazione, reattori avanzati, piccoli reattori modulari. Oggi, che tipo di reattori vengono utilizzati? E quali saranno le “novità”, in termini di vantaggi, della prossima generazione di reattori nucleari?
«Le generazioni, nel linguaggio tecnico dei nucleari, servivano a distinguere le diverse tipologie e tecnologie che hanno caratterizzato le diverse epoche dello sviluppo del nucleare energetico nel mondo: quella dei prototipi (anni 50/60) o prima generazione; quella delle centrali di larga potenza (anni 60/80) che costituiscono la gran parte delle centrali, attualmente, operative; quella della terza generazione (anni 90/2000) caratterizzata da salti qualitativi e tecnologici, specie sulla sicurezza. Da tempo, finire degli anni 90, infine, la progettazione nucleare è impegnata nel disegno, nella ricerca e nello sviluppo di reattori di nuova concezione- la cosiddetta quarta generazione- caratterizzata da una serie di features- spettro neutronico veloce, moderazione non più ad acqua, operatività ad altissime temperature, autofertilizzazione (generano più combustibile di quanto ne consumino), bruciamento degli attinidi (in sostanza la riduzione del volume di scorie ad alta attività), sistemi di sicurezza intrinseca – che delineano un nuovo salto tecnologico rispetto alle generazioni correnti di reattori. La quarta generazione, a differenza di quel che sostengono i detrattori del nucleare, è una solida realtà di reattori (decine di modelli in sviluppo) ad uno stadio avanzato di concezione e, in alcuni casi, in sperimentazione sul campo. Si ritiene che il pieno dispiegamento di questa categoria di reattori sarà intorno al 2040. Ma ad essi occorre prepararsi. L’Italia, con Ansaldo Nucleare ed Enea ha in corso lo sviluppo di un prototipo di reattore di quarta generazione in una delle filiere più promettenti di questa tecnologia: quella a piombo. Di recente, l’Ansaldo ha sottoscritto un accordo con la Westinghouse per l’internazionalizzazione di questo progetto. E non ci sono solo Ansaldo ed Enea. Un notevole successo di pubblico e investitori ha avuto la start up innovativa NewCleo che si propone, entro questo decennio, di portare sul mercato reattori di quarta generazione e combustibili di nuova concezione. Ma non c’è, assolutamente, da aspettare l’arrivo della quarta generazione. L’offerta tecnologica attuale e del decennio in corso è quella dei reattori di larga potenza (intorno ai 1000 MW) di terza generazione, la totalità delle nuove centrali oggi in costruzione nel mondo, e dei reattori SMR (small modular reactors), di minore potenza (dai 5 MW ai 350 MW), che stanno entrando sui mercati. Quando si parla di nucleare di nuova generazione o avanzato si deve intendere questa realtà esistente, in costruzione o in avvio di commercializzazione, di reattori di larga potenza, gli incumbent tecnologici, e di piccoli reattori. Entrambe queste tecnologie rappresentano lo stato dell’arte degli impianti nucleari sul terreno della sicurezza (introduzione dei sistemi di sicurezza passiva), dell’efficienza (la vita operativa supera i 60 anni), dell’economicità: per le grandi centrali, il costo del KWh nucleare, parametrato al capacity factor degli impianti, alla stabilità dei costi di gestione e alla lunga vita operativa degli impianti, si presenta come largamente attrattivo. Ne è esempio proprio l’Italia. Di recente la Federacciai, che rappresenta un settore che fa larghissimo uso di energia elettrica, ha ipotizzato l’acquisto diretto di elettricità, a prezzi stabili e per lunghissimi periodi, da una delle nuove centrali nucleari in costruzione, vicina ai nostri confini, entrando nel capitale di tale centrale. È un modello che può essere replicato per altre nuove costruzioni in Europa. I reattori SMR, invece, oltre all’economicità e la più facile localizzabilità, date le dimensioni, offriranno un’inedita flessibilità multiuso dell’energia nucleare: cogenerazione e usi termici industriali, produzione di idrogeno, integrazione delle reti rinnovabili, desalinizzazione ecc».
L’energia nucleare è stato un tema importante dell’ultima campagna elettorale. Lo schieramento che ha guadagnato la maggioranza parlamentare, tra l’altro, con fermezza ne ha più volte invocato la necessità e l’utilità. Lei che idea si è fatto al riguardo? Possiamo aspettarci che ci sia una concreta volontà politica al riguardo?
«Per la prima volta da molti anni, è vero, nei programmi della maggioranza dei partiti del nuovo Parlamento c’è l’apertura all’energia nucleare. Per la verità, e forse non poteva essere altrimenti, ancora in termini vaghi (tranne, va riconosciuto il programma di Azione). Si parla, prevalentemente, di aprire alla “ricerca” sul nucleare di nuova generazione. Dove, per la verità, come chiarivo prima, la ricerca è stata abbondantemente fatta nel mondo. E ha portato ai modelli di reattori di larga potenza (detti di terza generazione) in costruzione in Europa e nel mondo e ai nuovi SMR di cui è iniziata la commercializzazione. La ricerca da completare riguarda, come abbiamo detto, la futura quarta generazione (che arriverà sui mercati nel 2040) e la fusione nucleare (che prevede la “dimostrazione”, anch’essa, tra gli anni 40 e 50). Il nucleare di “oggi”, quello con cui fare i conti e a cui aprire, anche, nel nostro paese, è quello della terza generazione e degli SMR. Come? L’Associazione Italiana Nucleare propone un approccio pragmatico e non improvvisato di riapertura dell’Italia al nucleare civile. Fatto di quattro passi concreti: predisporre un piano energetico nazionale, in questa drammatica crisi energetica, che non si limiti più solo a definire il fabbisogno elettrico ed energetico, alle scadenze della de-carbonizzazione (2030-2050), ma indichi il mix di fonti con cui realizzarlo. Senza più pregiudiziali tecnologiche, com’è stato in tutti i piani energetici degli ultimi 35 anni. Valutando costi, condizioni, tipologie tecnologiche, implicazioni dell’energia nucleare utilizzabile, senza più antistoriche chiusure. In secondo luogo: raccogliere l’indicazione della Federacciai (partecipazione di consorzi di utilizzatori italiani al capitale delle nuove centrali nucleari in costruzione in Europa) per generalizzarlo in sede europea. Terzo, riaprire finalmente le leggi e gli strumenti di ricerca italiani all’industria e alla ricerca nucleari. Abbiamo perso l’occasione del PNRR (che la Francia, ha utilizzato, ad esempio, per lo sviluppo del suo SMR). Occorre recuperare con le leggi di ricerca ordinari e con nuovi strumenti che sostengano l’internalizzazione delle imprese italiane nella ricerca e sviluppo sulle tecnologie nucleari (peraltro, non solo in campo energetico). Infine, accelerare la costruzione del Deposito unico dei rifiuti radioattivi. Si tratta di un’opera dovuta (per Direttive comunitarie), finanziata, utile, portatrice di benefici e potenzialità di sviluppo locale. E senza la quale un programma nucleare futuro del paese non è ipotizzabile».