Ambiente

Il greenwashing sui social, l’ultimo report di The Fool

18
Gennaio 2023
Di Daniele Bernardi

“Il fenomeno del greenwashing, si intitola così l’ultimo report di The Fool, agenzia dal 2008 al servizio delle aziende nell’elaborazione di strategie per il miglioramento della reputazione digitale. Tra le attività della compagnia, infatti, c’è anche la redazione di studi e analisi legati a fenomeni del web. Questa volta a finire sotto la lente d’ingrandimento di The Fool è stato il greenwashing.

Breve excursus, cosa significa “greenwashing”? A tal proposito arriva in nostro aiuto l’enciclopedia Treccani: dicesi greenwashing la “strategia di comunicazione o di marketing perseguita da aziende, istituzioni, enti che presentano come ecosostenibili le proprie attività, cercando di occultarne l’impatto ambientale negativo”. Di strategie simili ne esistono a decine: per il femminismo di facciata, ad esempio, parliamo di pinkwashing, quando ad essere esaltata è invece un’azione in favore delle comunità LGBTQI+ (che, ricordiamo, oscura un sostanziale clima avverso a quella stessa comunità) parliamo allora di rainbowashing. Nel caso dell’ambiente si parla, appunto, di greenwashing.

La più importante implicazione del greenwashing è che confonde i consumatori, distorce la realtà, ma, ancor peggio, mina la credibilità dell’intero sistema, generando sfiducia. È questo che ci dicono gli analisti di The Fool: solo il 2% degli italiani si fida completamente delle dichiarazioni dei brand sulla riduzione dell’impatto ambientale, contro una maggioranza (68%) che si fida poco e nulla (8%). 

L’impatto, a questo punto, sull’economia e sui consumi è evidente: il greenwashing costituisce infatti, per il 48% degli intervistati, il primo disincentivo all’acquisto, seguito al 42% dall’effettivo scarso track record di politiche ambientali. Un tema scottante, dunque, che nel corso dell’ultimo anno ha aumentato il proprio volume di notizie del 73%, passando dalle 17 mila mention tra luglio 2020 e giugno 2021 a quasi 30 mila da luglio 2021 a giugno 2022. Argomento molto popolare soprattutto tra i giovani di età inferiore ai 34 anni, ben istruiti e provenienti dalle grandi città (in ordine: Milano, Roma e Torino).

Figura 1. FONTE: “Il fenomeno del greenwashing”, The Fool

Il target generale legato alle mention sul greenwashing nell’internet-sfera è a sua volta scomponibile in varie sottocategorie, le quali hanno a loro volta registrato dei cambiamenti tra 2021 e 2022: nel primo anno, per il 21% le mention sul greenwashing provenivano da attivisti, per il 35% da quelli che The Foll chiama i cosmopolitans (persone interessate alla società, l’attualità, la politica e gli animali, che amano vedere programmi di satira politica ed eventi artistici) e ben il 40% dalla “green finance (appassionati di tecnologie, software e trading, attenti alla finanza sostenibile e agli ESG); quest’ultime due categorie si sono fortemente ridimensionate nell’anno appena trascorso a fronte della comparsa di due nuove componenti, gli “screen addicted (dipendenti da schermo, appassionati di film e serie tv e seguaci di micro-influencer e account dal “tone of voice leggero”), al 12%, e i “digitalists (costantemente aggiornati sull’attualità, appassionati di marketing e ultimamente di argomenti legati al sociale e all’ecologia), al 9%.

I picchi nelle menzioni del fenomeno sui social, per l’anno appena trascorso, sono essenzialmente tre: il primo picco è stato registrato il 4 febbraio durante la serata del Festival di Sanremo quando l’artista e dj Cosmo, nel mezzo della sua esibizione, ha detto al microfono “Stop Greenwashing!”. Il bersaglio della frase era ENI, sponsor del Festival che, per l’occasione mandava in onda su Rai1 uno spot dove presentava la nuova compagnia Plenitude, braccio destro di ENI nel raggiungimento dell’obiettivo emissioni 0 entro il 2040, ma vista per lo più come una strategia di facciata per ripulirsi l’immagine che come una vera e propria innovazione verde.    

Il secondo momento clou in ordine cronologico (terzo per volume di comunicazioni) è di fine maggio quando la Deutsche Asset & Wealth Management (DWS), fino al 2018 parte di Deutsche Bank, viene indagata per greenwashing. Secondo l’accusa, la società aveva reso dichiarazioni fuorvianti quando aveva affermato che oltre la metà dei 900 miliardi di dollari di patrimonio erano stati investiti secondo parametri di sostenibilità.

Infine, il secondo picco più alto è stato registrato verso la metà di giugno, in occasione della votazione in Commissione Europea per includere gas e nucleare nella tassonomia green. Al di là della nomenclatura, la presenza di gas e nucleare nella lista delle tecnologie verdi permette di godere di maggiori e più rapidi finanziamenti e bypassare diversi ostacoli. Naturale, dunque, la reazione avversa di Greenpeace e WWF che hanno subito accusato l’Ue di stare facendo greenwashing per le lobby del gas fossile e del nucleare.  

Per riassumere, il tema del greenwashing sta sostanzialmente passando sempre di più da interesse di nicchia del web a tematica mainstream, ampliando il proprio pubblico e il volume di menzioni. Se da un lato il maggiore interesse costituisce un’opportunità per dare maggiore visibilità al problema e correre ai ripari, dall’altro non mancano rischi e pericoli: quando sempre più persone se ne interessano per moda, c’è la possibilità che non si vada oltre questo e che invece le soluzioni concrete scarseggino.

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