L’Italia sospesa fra Est e Ovest e in profondo cortocircuito interno. Questo il senso possibile degli eventi andati in scena negli ultimissimi giorni. Mentre una parte del governo italiano caldeggia la firma del memorandum d’intesa per aderire alle nuove vie della seta cinesi – provocando reazioni immediate e soprattutto contrarie all’interno della stessa compagine governativa (e non solo), l’attesa trattativa fra M5s e Lega per decidere una volta per tutte il futuro del Tav Torino-Lione ha portato a un nulla di fatto che acuisce le tensioni interalleate e getta più di un’ombra sulla stabilità non solo formale dell’esecutivo guidato da Giuseppe Conte. Il balletto sull’utilità di un’opera che per alcuni è strategica e per altri, invece, un colpevole sperpero di fondi pubblici dà la misura della profondità delle linee di faglia ideologiche che separano i partner di maggioranza. Tanto più dopo che lo stesso esecutivo si era posto il termine ultimo di venerdì 8 marzo per mettere la parola fine al tira e molla sul Tav e ad appena una settimana di distanza dalla presa di posizione di Palazzo Chigi in favore dello sblocco dei tanti cantieri fermi per immetterne nuova linfa all’interno di un sistema economico in palese difficoltà. Di per sé l’ostilità pentastellata alla realizzazione dell’opera transfrontaliera non costituisce alcunché di nuovo, occupando da tempo un posto d’onore nel bagaglio ideologico-valoriale su cui è stato costruito il Movimento. Ma è cresciuta col passare del tempo e soprattutto negli ultimi mesi, quando l’esperienza di governo combinata all’intraprendenza leghista hanno costretto il partito guidato da Luigi Di Maio a più di un compromesso, spesso doloroso e in disaccordo col comune sentire della base.
In realtà quello che contiene le grandi infrastrutture strategiche è un dossier che non riguarda più soltanto l’Italia ma che chiama in causa collocazione e postura nel nostro paese in un più ampio contesto geopolitico. Prova ne siano gli allarmi suonati con insistenza dopo che il sottosegretario alla Sviluppo economico Michele Geraci ha prospettato l’adesione italiana alla controversa Belt and Road Initiative (Bri), il mega-progetto infrastrutturale e commerciale dispiegato da Pechino per legare a sé l’Eurasia e scardinare la globalizzazione americana. L’Italia sarebbe il primo paese membro del G7 a entrare nel progetto e per questo motivo ha alimentato gli strali di Washington, lesta a mettere in dubbio l’effettivo beneficio della Bri per il nostro Paese. Gli Stati Uniti interpretano le nuove vie della seta come uno strumento di espansione globale dell’influenza cinese, al pari degli altrettanto contestati investimenti di Huawei nelle reti 5G dei principali paesi europei, Italia compresa. Gettarsi nell’abbraccio cinese potrebbe agevolare gli investimenti nelle infrastrutture portuali – come a Genova e Trieste – ma al contempo rischia di esporre l’Italia alla ritorsione americana. Peggio ancora se con il Paese in piena recessione tecnica e nel bel mezzo del rallentamento economico globale. Al governo spetta il difficilissimo compito di selezionare con cura i progetti cinesi non lesivi della sicurezza nazionale e degli interessi americani nella penisola. Sfida ai limiti del possibile per chi non ha visione di dove si collochino gli interessi strategici dell’Italia.