Salute
Covid 19 le sfide per il public affairs nel pharma. Intervista con Monica Gibellini
Di Alessandro Caruso
Il Covid ha rivoluzionato molte professioni. Sicuramente anche il modo di approcciare alle strategie di public affairs, soprattutto in un settore delicato come il pharma, la cui strategicità è emersa ancor di più in piena pandemia. Non a caso Monica Gibellini, Associate Director Policy and Government affairs di MSD, conferma che il trend è cambiato rispetto a quando «la spesa farmaceutica veniva considerata più come un costo che un vero investimento». Tuttavia questo comporta molte nuove e stringenti responsabilità. E Gibellini, da manager e donna, ci racconta come affrontarle.
L’ultimo biennio, segnato inesorabilmente dalla pandemia, ha visto i settori della salute e del pharma diventare protagonisti del cambiamento politico, geopolitico e istituzionale a carattere globale. Lei è testimone di questa evoluzione, in quanto manager del public affairs per una delle più importanti multinazionali del pharma, MSD. Come si è tradotta questa trasformazione nei rapporti e nei processi della sua professione?
«La pandemia ha cambiato irrevocabilmente la società, le abitudini e il mondo del lavoro che conoscevamo creando uno spartiacque tra un prima e dopo. Come professionista del mondo della salute e delle relazioni istituzionali, insieme ai miei colleghi, abbiamo dovuto reagire prontamente per cercare di portare la soluzione attraverso la ricerca, la produzione, la distribuzione e le partnership con le istituzioni. Sono stati momenti molto intensi dove ognuno con le proprie esperienze cercava di dare il proprio meglio. MSD Italia, fin dalle prime fasi della pandemia, ha voluto supportare Istituzioni, Pazienti e Cittadini attraverso una vera maratona di solidarietà per dimostrare la propria vicinanza alle realtà maggiormente colpite, in quei momenti in cui il nostro Paese è stato tra i primi a dover fronteggiare l’emergenza. Accanto alle iniziative di solidarietà si è dovuto anche ripensare il modo di lavorare e, sebbene MSD avesse già un modello ibrido di smart working, si è dovuto ripensare anche al modo di fare attività di relazione con le Istituzioni e con tutti gli stakeholder sanitari. Per colmare la distanza si è fatto ricorso alle nuove tecnologie, a nuove modalità di confronto attraverso la promozione di digital round table e di incontri virtuali nonché un nuovo utilizzo dei social network come principale strumento di diffusione delle tematiche di policy. Non ci siamo ancora lasciati alle spalle la pandemia ma sicuramente ne stiamo uscendo più forti, più consapevoli e con nuovi strumenti a disposizione per consentire di svolgere al meglio il nostro lavoro: migliorare l’accesso alle terapie per i pazienti del nostro Paese».
Cosa vuol dire, in questo particolare momento storico, essere una dirigente donna nel settore del Public Affairs?
«Secondo il più recente rapporto sul mondo del lavoro, elaborato dall’ISTAT insieme al Ministero del Lavoro, la pandemia ha fatto crollare la partecipazione delle donne al mercato del lavoro, non solo in Italia, ma in tutto il mondo. Di conseguenza, i tempi per la parità di genere si sono allungati di un’altra generazione a causa del Covid, precisamente di 36 anni in più, secondo l’ultimo Global Gender Gap Report del World Economic Forum. Il rapporto stima che ci vorranno in media 135 anni per raggiungere la parità su una serie di indicatori in tutto il mondo, invece dei 99 anni delineati nel rapporto precedente. Io mi sento fortunata, lavoro per un’azienda che ha fatto del Social, Equity & Inclusion una delle priorità in linea con gli Obiettivi di sviluppo sostenibile promossi dall’ONU. MSD Italia ha un tasso di occupazione femminile al 59% con il 50% di donne all’interno del Leadership Team; nel 2021 il 63% delle promozioni e delle assunzioni ha riguardato il genere femminile ed è tra le prime aziende ad aver risolto il problema del gender pay gap. Tuttavia, se volgo il mio sguardo al settore delle relazioni istituzionali e più in generale nelle “stanze dei bottoni”, la rappresentanza femminile è ancora troppo esigua o relegata a ruoli non decisionali, segno che c’è ancora molto da fare. Il public affairs al femminile ha le sue peculiarità che, come donne manager, dobbiamo avere il coraggio di affermare, differenziandoci dal modello maschile e lasciando spazio alle nostre naturali propensioni e punti di forza. Il Covid lo ha dimostrato, le donne sono maggiormente inclini a condividere i processi decisionali e a rivalutare in modo critico le proprie strategie. Contare su un numero sempre maggiore di donne professioniste del Public Affairs spero possa rappresentare, sempre di più, un nuovo approccio per promuovere politiche pubbliche più virtuose e inclusive a beneficio dei settori produttivi, delle istituzioni coinvolte e soprattutto della società in cui tutti viviamo».
L’effetto Covid ha catapultato le aziende farmaceutiche al centro dell’attenzione mediatica e anche politico-istituzionale. Eppure molte aziende farmaceutiche lamentano un sottofinanziamento da parte dello Stato. Come vi state muovendo su questo fronte?
«Se c’è una lezione amara che abbiamo appreso dal Covid è che senza salute non c’è prosperità e non c’è economia; ci ha ricordato che la ricerca e lo sviluppo di farmaci e vaccini sono un bene prezioso da conservare e da incentivare, tanto più in un Paese come l’Italia che ha una delle popolazioni più vecchie al mondo e con problemi di disabilità e fragilità superiori ad altri paesi europei. Una realtà, quella italiana che ha anche dovuto fare i conti con politiche di tagli lineari nel settore sanitario e farmaceutico, che ci hanno visti scoperti durante la pandemia. Solo grazie alla pronta reattività del nostro SSN nonché alla forza di volontà e resilienza, dimostrata da tutto il comparto sanitario, siamo riusciti a gestire questa grande crisi. Nell’ambito della spesa sanitaria, la spesa farmaceutica è stata considerata più come un costo che un vero investimento. Con l’avvento della pandemia il Legislatore è subito corso ai ripari. Da esempio vorrei citare l’ultima Legge di Bilancio, nella quale è stato approvato l’aumento del finanziamento del fabbisogno sanitario nazionale standard cui concorre lo Stato fissandone il livello complessivo in 124.061 milioni di euro per il 2022, 126.061 milioni per il 2023 e 128.061 milioni per l’anno 2024 e una rideterminazione dei limiti di spesa farmaceutica, elevando progressivamente quello concernente la spesa farmaceutica per acquisti diretti, a patto del verificarsi di una serie di condizioni inserite nel testo di legge che includono la revisione del prontuario e il pagamento integrale del Payback senza riserva. E se sicuramente si tratta di un segnale concreto di apertura, pur essendo ancora lontani dal 16,4% del 2007, si teme che non corrisponda a un vero ripensamento del ruolo del settore farmaceutico nello sviluppo futuro del nostro Paese. Eppure, il settore farmaceutico con i suoi 67mila addetti e una produzione in Italia che ha raggiunto un valore di 34 miliardi di euro (65 miliardi se si include l’indotto) rappresenta un’importante realtà che andrebbe incentivata e considerata al pari di altri asset strategici del Paese quale l’energia e le telecomunicazioni».
Il paragone con le telecomunicazioni è anche un riferimento al suo passato professionale nel settore?
«Ho iniziato la mia carriera nell’ambito delle telecomunicazioni in H3G fino al 2010, anno in cui sono passata al settore sanitario. Ho avuto il privilegio di lavorare per una grande azienda multinazionale, all’avanguardia nelle nuove tecnologie, in un momento storico in cui la tecnologia faceva sognare. C’era il passaggio dalla voce alla connettività diffusa, alla condivisione delle esperienze, nonché alle implicazioni che le nuove tecnologie potevano avere in ambito socio-sanitario. Oggi, dopo qualche anno, quei progetti sono diventati realtà e la pandemia ha solo accelerato un percorso che aveva già intrapreso la sua strada».
I due mondi, telco e sanità, sono peraltro sempre più vicini. La sfida della digitalizzazione dal mondo sanitario è stata elaborata nella soluzione della telemedicina, che sta avendo molto successo. Cosa pensa di questa nuova frontiera?
«Salute e digitalizzazione sono due settori fortemente interconnessi e che vicendevolmente possono incrementare le reciproche potenzialità a beneficio dei pazienti. La telemedicina e la tecnoassistenza rappresentano sicuramente il futuro per la gestione di molte patologie soprattutto croniche, in cui il continuo monitoraggio del paziente è un elemento essenziale nell’aderenza al percorso terapeutico. Le tecnologie e-Health garantiscono la realizzazione di una modalità operativa a rete, facilitando l’integrazione tra le varie figure deputate all’assistenza e alla erogazione dei servizi. In particolare, nella integrazione ospedale/territorio e nelle nuove forme di aggregazione delle cure primarie, favorendo così la gestione domiciliare della persona e riducendo gli spostamenti spesso non indispensabili e i relativi costi sociali. A sei anni dall’approvazione del Piano nazionale Cronicità, si è ancora lontani dall’obiettivo di una presa in carico efficace e sostenibile dei pazienti cronici fondata su una forte integrazione tra l’assistenza primaria e le cure specialistiche, sull’assistenza a domicilio, sull’utilizzo a regime degli strumenti tecnologici come la telemedicina, il teleconsulto e il telemonitoraggio, oltretutto con notevoli disparità territoriali e Regioni che non hanno ancora recepito il Piano. Ciò che maggiormente rappresenta l’attuale limite alla diffusione della sanità digitale è spesso legato alla scarsa integrazione delle tecnologie digitali all’interno dei percorsi di cura o di presa in carico dei pazienti (es. PDTA, PAI) e che, troppo spesso le soluzioni di telemedicina sono un elemento esterno alle modalità di assistenza quando, invece, dovrebbero essere pensate come parte integrante i percorsi di cura sia nelle prestazioni, tramite l’utilizzo di dispositivi digitali, sia dal punto di vista normativo che ad oggi non ne permette un utilizzo pieno specie per quanto riguarda la fruizione del dato. Speriamo che con l’introduzione del DM 71 insieme alle opportunità offerte dal PNRR si possa cogliere l’opportunità per identificare una tariffazione ad hoc con criteri di rimborsabilità specifici per le soluzioni di sanità digitale anche confrontandosi con le altre realtà europee».
Il Covid ha comportato effetti significativi anche nel contrasto ad altre patologie gravi, basti pensare al ritardo degli screening oncologici. Quali ritiene siano state le misure più importanti adottate dal Governo per fronteggiare questa situazione?
«Ormai è un dato di fatto che i malati oncologici, e la popolazione a rischio stiano vivendo una “emergenza nell’emergenza” causata dagli effetti indiretti che la Covid-19 ha avuto su prevenzione e assistenza oncologica. Per rispondere alle criticità connesse all’emergenza, il Governo ha adottato una serie di misure importanti per consentire il pieno funzionamento del SSN nonostante la situazione pandemica, emanando una serie di decreti legge volti a mettere in campo misure urgenti che, sotto il profilo sanitario, hanno disposto un consistente incremento del livello del finanziamento del fabbisogno sanitario nazionale standard, per assicurare adeguate risorse umane e strumentali per gestire il perdurare dello stato di crisi. Da un punto di vista di governance del farmaco, in particolare, l’unificazione dei Fondi per l’acquisto dei farmaci innovativi e innovativi oncologici disposta nell’ambito del DL Sostegni-Bis penso abbia rappresentato una vera best practice di buon governo della gestione delle politiche del farmaco. Il Governo, di concerto con il Parlamento, ha deciso di istituire un unico Fondo per l’acquisto dei farmaci innovativi nello stato di previsione del Ministero dell’economia e delle Finanze, con una dotazione pari a 1 miliardo di euro e successivamente, il Legislatore è intervenuto per aumentarne gradualmente la dotazione disponendone un incremento di 100 milioni di euro per l’anno 2022, 200 milioni di euro per l’anno 2023 e 300 milioni di euro a decorrere dall’anno 2024. I fondi per i farmaci innovativi hanno rappresentato fin dalla loro istituzione una best practice italiana a cui l’Europa guarda con attenzione, hanno consentito l’accesso a un notevole numero di molecole innovative facendo sì che l’Italia si ponesse al passo con l’innovazione rispetto agli altri Paesi e consentendo di recuperare quanto era stato perso in passato».
E cosa resta da fare?
«Gli ultimi interventi normativi hanno posto le basi per poter incrementare l’utilizzo delle risorse messe a disposizione dal fondo per i farmaci innovativi attraverso due tipologie di azione che da un lato potrebbero consentire l’implementazione, anche in Italia, di quanto avviene già in altri Paesi europei quali la Germania, del cosiddetto early access: volto all’accesso e alla prescrizione di terapie già approvate dall’ente regolatorio europeo, prima del rimborso a carico del Servizio Sanitario Nazionale, e dall’altro estendendo la durata di permanenza nel fondo, oltre il limite attuale di 36 mesi, per quei farmaci per i quali non siano disponibili alternative terapeutiche di superiore efficacia al momento della perdita dello status di innovatività».
Il settore farmaceutico ha un problema reputazione in Italia, almeno da parte degli utenti. Ma qual è la sua impressione sui decision maker? Sta cambiando qualcosa?
«I pregiudizi e i falsi miti derivano purtroppo dalla moltitudine di fake news da cui veniamo bombardati ogni giorno e che si sono autoalimentati durante la pandemia. Ritengo che per scongiurare queste derive si possa solo rispondere attraverso i fatti, la scienza e le corrette pratiche. In MSD, attraverso le forme di comunicazione tradizionali e i nuovi canali multimediali, cerchiamo di lavorare ogni giorno per arrivare in modo capillare e diretto a tutti gli utenti opponendoci all’onda delle fake news e degli ‘esperti improvvisati’ che dilagano sui social. Lavorare nel public affairs per un’importante realtà globale, quale MSD, significa fare da trait d’union tra le necessità di una realtà industriale internazionale e la gestione della cosa pubblica nazionale mettendo sempre al centro delle decisioni la tutela della salute dei pazienti. Bisogna continuare a promuovere, in un’ottica di responsabilità condivisa, nuove forme di partnership pubblico privato, libere da pregiudizi, proprio perché stiamo vedendo negli ultimi mesi che le sfide per il Paese purtroppo, non giungono solo dal settore sanitario e che dobbiamo essere preparati e pronti a reagire, potenziando sin da ora il Servizio Sanitario Nazionale per evitare domani ulteriori emergenze. Quando la salute verrà posta al centro della società, allora finalmente ne riconosceremo il suo vero valore: un investimento per il presente e per il futuro».