Esteri

Patto di Stabilità. Riforma a rilento nell’Europa che però già cambia

18
Maggio 2022
Di Giampiero Cinelli

La complicata fase europea non può che investire vari ambiti oltre a quello delle politiche di difesa. A livello economico, i problemi attuali hanno portato le istituzioni a confrontarsi con le regole fiscali dell’eurozona. Spesso apparse poco al passo coi tempi. Il Patto di Stabilità (PSC) è stato sospeso allo scoppiare della crisi pandemica e, considerando la situazione innescata dalla guerra, c’è abbastanza fiducia sul fatto che la sospensione sarà prorogata anche nel 2023 e probabilmente nel 2024, a giudicare dall’apertura della nuova ministra delle finanze Sigrid Kaag.
Le proroghe sono del tutto comprensibili. Ma stanno anche a evidenziare, volendo andare un po’ più a fondo, il fatto che la strada per un nuovo Patto di Stabilità è ancora lunga da percorrere.

Da tempo si pensava di riformarlo e le consultazioni sono in atto da mesi. I ministri continuano a confrontarsi, Tuttavia non si può dire di aver già chiaro uno schema. Non solo per negligenza, siccome attualmente questioni di grande rilevanza premono di più. Fin quando non si trova una quadra, infatti, resta comunque la sintonia nell’aver inaugurato una stagione più espansiva creando strumenti che per la prima volta contemplavano, seppur in parte e non strutturalmente, delle emissioni di debito comune. Ci riferiamo al piano Next Generation EU, da noi chiamato più spesso Recovery Fund, a cui si associa anche il rifinanziamento e l’espansione degli ammortizzatori sociali.

Lo status quo fa dunque oscillare tra due prospettive: o riformare le regole della governance o creare strutture che integrino sempre più fortemente la politica monetaria degli Stati. Di certo, senza un accordo, prima o poi il Patto di Stabilità tornerà e se resta così com’è potrebbe essere un forte problema. Essendo l’UE tuttora un ordinamento intergovernativo, per forza riflette i diversi interessi in gioco.

Da una parte i Paesi creditori (nell’ambito del sistema di pagamenti interbancari europeo), che non vedono di buon occhio le politiche generose dei paesi debitori. Dall’altra i paesi in deficit verso gli altri, che oggettivamente non possono rientrare dal debito nei tempi richiesti. Tuttavia, dopo lo scoppio della pandemia, i debiti pubblici degli Stati sono cresciuti tutti, molti dei quali arrivati alla soglia del 100% del Pil.

Ecco perché le famigerate regole sul deficit e sulla riduzione dei debiti pubblici si presentano ormai anacronistiche e poco praticabili. Anche perché, di fatto, non hanno funzionato. Tra le proposte, quindi, c’è quella di abbandonare il parametro del 60% di debito pubblico sul Pil, o di perseguirlo in tempi più lunghi. Slegando, dal computo del deficit, la spesa per investimenti pubblici. Conteggiando solo la spesa corrente. E facendo sì che strumenti simili a quello del Recovery Fund restino permanenti, favorendo la crescita, gli investimenti nella transizione ecologica, l’adeguamento al cambiamento climatico e la stabilità finanziaria all’interno dell’Unione. Posta anche l’esigenza di un organo centralizzato che valuti il quadro delle politiche fiscali, e che questo non sia più prerogativa della Commissione Europea.

La visione dominante degli ultimi anni, è stata quella secondo cui soltanto le politiche espansive di singoli Stati potessero destabilizzare la zona euro, mentre anche politiche restrittive dei membri impattano sugli indicatori principali. Lo hanno compreso i governanti, che per adesso continuano a guardare alle soluzioni non convenzionali messe in campo. Senza preoccuparsi troppo di dover mutare ciò che invece era ordinario. Forse consci del fatto che siamo entrati in tempi nuovi.